Maratona e ragazzo blu. Come la canzone meno conosciuta di un gruppo sconosciuto, la Maratona suona solo per pochi appassionati.. E’ un pezzo Indie, che vuol dire indipendente, fuori da ogni schema e ognuno lo interpreta come gli piace. Il fissato avrà l’occhio maniacale al cronometro perché deve fare il buon tempo e il cattivo in gara. Il veterano, parsimonioso chiederà un aiuto alle sue sensazioni, alla sua esperienza evitando ridondanze e sprechi inutili di energia.. Il neofita, sarà prodigo di complimenti e di paure verso il suo autoritratto d’autore, guarderà l’asfalto che gli scorre addosso e penserà a smozzicarlo a masticarlo a ingoiarlo a piccoli pezzi. La Maratona è una indigestione d’asfalto e gli ultimi 5 km non vanno giù nemmeno con il bicarbonato, rimangono nella gola togliendo l’aria. E dopo viene la paura. Di solito è uno stato d’allarme per qualcosa che non conosciamo, di cui non riusciamo a definire i contorni. La Maratona finisce ci sfinisce, passa la paura del prima e arriva la paura del dopo, vasi comunicanti in assedio al nostro ragionevole malessere, le due paure. E’ paura di avercela fatta, sottile sensazione quasi benefica che solo i più sensibili e suscettibili riescono a raggiungere. Si fa una raccolta differenziata dei vari dolori, ci si scopre, ci si copre, si sale in macchina e quella paura ci accompagna fin sotto casa, fin sotto la doccia. La paura di essere normali, di essere come gli altri, come tutti quei 10000 e viene il rimorso di non averla provata prima questa paura che in realtà è terrore di essere troppo felici. I nostri complessi, i nostri timori, le angosce ancestrali sparite nell’imbuto della gara. Nemmeno una schiera di psicologi, di psichiatri avrebbe potuto tanto. Un successo per la nostra mente. Guariti all’istante, sani, come tutti. Sani, come tutti e felici tutti.. Avevo una tuta blu. Mia madre aveva capito che il blu mi donava e mi fece blu dai dieci ai quindici anni. Anche il pigiamino avevo blu, la bici.e soprattutto la tuta che indossavo a tutte le ore. Correvo in tuta blu, andavo a scuola in tuta blu, studiavo, mangiavo, dormivo in tuta blu. Ero un bambino blu, magro, poco nobile, poco colorato, poco felice . I miei amici, più che amici compagni di classe, mi accusavano di oscurantismo per colpa di quel colore. Portava jella il blu, secondo le loro intenzioni, nemmeno fosse nero. Io me la prendevo ed ero sempre triste e malconcio e correvo all’impazzata, facevo su e giù per il palazzo facendo rumore, arrivavo ai lavatoi e riscendevo, poi risalivo con la falcata sempre più lunga. La tuta non la toglievo, era la mia divisa e mi proteggeva, mi incartava le spalle,mi incartava la pelle. Ad ogni battuta replicavo in maniera seriale: porto jella?... portami tua sorella, che se me l’avesse portata davvero sarei svenuto per quel barattolo di timidezza che ti avvolge e non si apre mai prima dei sedici anni. Il flipper andava in tilt?.......... colpa tua blu, porti jella. La bici bucava? ……..colpa tua blu porti zella… e io.. portami tua sorella. Una sera d’estate a una festa a casa, di quelle clamorose che tutti i condomini guardano pieni di veleno disperati per la gioventù che non hanno e per le scale rumorose, il più grande (per via del capoccione) del branco portò la sorella e…..io non svenni. Cocomero a fette, lattine di aranciata, limonata, tramezzini, supplì e patatine, torta storta, mezza squagliata, musica a palla, sudore e primi scosci adolescenziali delle ragazzine. Mio padre e mia madre sul divano, uno a destra e una a sinistra, schierati in stereofonia a controllare che non fossero nuvole di fumo quelle che uscivano dal bagno ma vapori di Marlboro. La sorella del capoccione non mi sorrise, nemmeno io, e fu quel colpo di fulmine di antipatia che ci unì. Finì il mio periodo blu. Cominciai a vestirmi multicolor, a quadri, a righe, a scacchi., a rombi, a piede di pollo. Un arlecchino sopraffino sempre accanto a quello scricciolo femminile. Mangiavo con più appetito, la cura funzionava e ben presto sparirono le patacche di magro sulla mia maglietta. Pure lei pulsava come una pentola di lenticchie sul gas che bolle. Poi succede che la storia finisce. Finisce come un enzima che deve dar modo di digerire, di assorbire quelle gioie così belle e… con uno stratagemma trasformale in dolore. Ricominciai a vestirmi di Blu. I miei amici appena più veri, per solidarietà vestivano di blu. Il capoccione che mi voleva più bene degli altri comprò perfino una cinquecento blu, era di moda. Insieme facevamo brevi gite… e io me ne stavo zitto guardando dal finestrino appannato. Al ritorno stavo zitto ancora…. i minuti, le ore, zitto e mi esercitavo a guardare cose inutili tipo le foglie secche, le auto parcheggiate a schiera, un cane che abbaiava a un altro cane, l’insegna del Bar che indicava il Bar, l’arrotino che diceva è arrivato l’arrotino, Mascheravo il dolore che avevo dentro, il vuoto che avevo dentro al vuoto, che è più di dentro. Facevo pure cose inutili, accendevo e spegnevo l’accendino, trattenevo il respiro più di un minuto, riuscivo ad arrivare anche a un minuto e mezzo, roteavo il mazzo delle chiavi di casa verso un nemico invisibile, come un ritardato. Contavo i passi, contavo i piccioni sul palo della luce, contavo i piccioni sul filo della luce, contavo e coloravo i piccioni, li facevo blu, contavo le cicche fuori dal Bar, contavo le sedie fuori dal Bar, contavo quanto rumore facesse il tram, contavo quanti tram facessero rumore, contavo.