Corri al parco e altra gente. Una gara complicata, tutto quel verde non ti fa distinguere la salita dalla discesa, sembra una macchia indistinta, un tapis roulant. Correre per me è tutta un’ipotesi, non riesco ad avere il passo giusto ne l’abito giusto, sembro un turista con bagaglio a mano… pantalone blu cinese, maglietta strana, scarpe strane. Saluto tutti come quei dottori che sorridono e gesticolano per dar coraggio e serenità all’ammalato, ma l’affanno fa capire che il malato sono io. Me ne sarei dovuto stare a casa immerso nel profumo di detersivo e di cane, sdraiato sul divano con i capelli a frangetta sul dormiveglia come le sbarre della cella di un carcerato. E’ talmente deprimente starmi vicino sotto sforzo che m’ammazzerei. Mi passa, al primo giro, il presidente freak, in salita. Mi passa Pino, in discesa. Mi passa Giancarlo, in pianura. Variazioni altimetriche ridondanti di superamenti e sento addosso la jella di chi per suicidarsi si chiude in garage con il motore acceso dimenticando di aver fatto benzina e.. il motore si spegne. La gara conta sempre meno immerso nei miei pensieri. Una salute improvvisa mi fa ritrovare l’accellerazione giusta quasi fossi in vista dell’orgasmo finale. Ingoio tutto quello che ho al mondo in quel momento il presidente freak e Pino. Li passo da seduto come su di un’auto da corsa. Mancano 2 km, provo a pensare a qualcosa di bello. Un tramonto, un’ alba, una ragazza con le gambe accavallate, ma mi vergogno quasi subito dell’idea stupida e torno sugli avversari. La discesa finale è brutale come il canto di una sirena. Mi sento al sicuro, devono fare tutto le mie gambe, non io. Giancarlo non è di certo un cretino qualsiasi che si fa battere facilmente, ma è li a 150 metri. La pista è uno scaffale di gente. Mi squilla il telefonino e una voce anonima dice : Tom, devi partire, adesso o mai più. 100 metri da Giancarlo, adesso la mia vita si misura con la distanza da Giancarlo. Lo vedo bene, nitido, ha le gambe bianche e magre che conosco. Mi sta davanti, non posso commuovermi . 50 metri, devi partire. Quante volte Giancarlo mi ha rimproverato perché mi alleno poco, perché mangio, perché bevo, perché sono poco atleta. Ora è davanti a me, lo abbraccerei e invece devo batterlo. E’ un bravuomo Giancarlo, volergli bene è normale come imparare a dormire, a mangiare a bere a sudare. La striscia della seconda corsia è una fessura, mi ci sento i piedi dentro. Il panorama è brutto come uno sbadiglio di sonno, cortina e cemento. 10 metri, mi scoppia un petardo in faccia, lo passo a velocità doppia. Nessuno parla dei runners dopo il traguardo, lo faccio io. Giancarlo ha la faccia lunga, magra, gli occhi rossi. Stento a riconoscerlo e se non fosse lui? E se avessi sbagliato? Tutto quello sforzo, tutto quel ragionamento per battere l’uomo sbagliato. Si ferma, mi allunga la mano, mi abbraccia. E’ lui, mi vuole ancora bene. La gara la vince un manipolo di anonimi imbustati. Gente mai vista in zona, mai conosciuta. Non mi va nemmeno di nominarli. Prendono la busta con i soldi e se ne vanno. Giancarlo sorride e va tutto bene. Da piccolo volevo farmi sacerdote, poi nessuno mi chiese e non mi feci. Che pensiero stupido dopo 10 km di corsa. Non l’avevo mai detto a nessuno.