La Befana La casa è di mattoni rossi, affiorano piante interinali fedeli al paesaggio precedente. Apro il cancello, attraverso un giardinetto condominiale seminato ad automobili. Salgo le scale. Dorme, incubato nell’ incubo che ha deciso lui. I capelli da musicista sono immersi nei due tipi di fiori della parete. Sono due settimane che non si fa sentire, per fortuna ho le chiavi. A terra giace il corpo del cane in un fondale appiccicoso di linoleum accanto a uno spritz di acqua stagna. -Tò che ci fai qui? -Considerando che il cervello di un alcolizzato lavora al 30 % e al mattino è stanco morto posso dirti un… passavo, crivellato di menzogna. -Lo sai che non bevo più. Si muovono lentamente le sue cartilagini consumate, i suoi riccioli poco serici, il suo mosaico di rughe. Di me si fida e può apparire malconcio, può apparire niente, quando si sente niente. Non cambio posizione per non farmi vedere commosso, questo è l’esempio di amicizia che posso dare, non se lo aspettava nessuno così forte, nemmeno io. A lui non importa di avere il sigillo ermetico sulla sua vita e quella tristezza lo trasforma in luogo, in uno di quei posti fuori mano che nessuno ricorda e nessuno riconosce. Lui dice che ci si abitua ad essere fuori mano, ci si abitua, e che diventare un tronco miserabile lavorato dal mare, buono solo per la piscia dei cani gli fa pure comodo. Il mio compito ambulatoriale nel portare conforto alla sua vita scucita è una potente semplificazione dell’amicizia. Apro le imposte della camera da letto, si spostano le tendine per ubbidienza, senza che io le tocchi. -Mettiti la tuta , spegni il computer, io porto giù il cane, il caffè lo prenderemo al solito bar. -Ma dove andiamo Tò? -A San Policarpo, c’è la Befana. -Non sono iscritto. -Sbrigati, cavolo! -Altri ordini? -Si, sparati in fronte. (rido) E’ l’unico personale di quell’appartamento, sua madre è quella della fotografia sul comò, quella a destra con il cappello di paglia, quella che mi sorride. Quando risalgo Annibale ha qualcosa di incartato sottobraccio ed è vestito da corsa. - Andiamo Tò. -Andiamo. Il bar mostra una stravagante insegna accesa all’interno, un trucco per difendersi dai ladri di insegne. Inizio un gioco enigmistico con la bellezza della cassiera. -Non fa niente se mi guarda, ma prima o poi dovrà pagare qualcosa o vuole che spenga le luci e me lo dice? -Mi scusi, ero sovrappensiero . -Ma cos’ho di tanto speciale? -Poco prima di morire le dirò cosa, per ora due caffè. Le mie dita si posano sullo scontrino fresco di battuta sfiorando volutamente le sue dita sottili per una rivalsa emotiva. Sono fredde come gli spicci, stessa temperatura. Si accomoda meglio sulla sedia, allunga la maglietta, allunga la gonna, ha un girovita talmente sottile che mi chiedo dove abbia nascosto le budella. E drastica dice: -Lei violenta le donne con lo sguardo, non faccia il finto tonto. -Addirittura? Bè...se aspetta un bambino allora è il mio. -Mi sono sbagliata, non incoraggerò più un dialogo con nessuno. E torna ad essere cassiera, per comodità e per lavoro, con un sollievo da convalescente. La salutiamo con gentilezza finta, esagerata. Fuori c’è il sole. Siamo in vista della ciclabile, i giardini delle belle case hanno l’aria molto triste di chi non è amato, dal labirinto di vie traverse affluisce un bombardamento di gente. Ciao Tommi me lo dice un Roberto rassegnato a fare lo spettatore ingessato. A distanza zero lo abbraccio nel lato opposto al gesso. Angelino Matera metterà in pratica quello che già descrive a gesti con grande entusiasmo: la gara dei ragazzi su un circuito campestre di mille metri. Patrizio e Rodolfo vestono il nero della squadra, nato in provincia mi è rimasta l’abitudine campagnola di abbracciarli. A Silvia chiedo:- quanto ti trattieni? Risponde secca:- se tutto va bene una cinquantina di minuti e tu? -Idem La sua risata continua pure quando sparisce, non mi crede. Cominciamo ad avanzare senza spingere. Annibale valuta peso e forma delle ragazze di cui possiamo tenere il passo. Nessuna. -Tò non mi va di fare la gara, ce ne andiamo? -Io non so quanto amore metti nelle cose che fai, io ce lo metto tutto, anche in quelle piccole, in apparenza insignificanti. -Tipo? -Vedi questa partenza, i suoi bordi di cemento, quelle scritte oscene, quel tiglio mezzo secco, la pineta, ecco, io ci metto tutto l’amore per farla apparire più grande, più pulita. L’amore ripulisce. Annibale si toglie la gomma dalla bocca e per la prima volta nella sua vita la getta nel posto giusto scortato dall’unico dispiacere della giornata: la mia ramanzina. Poi non avendo un granché da dire si allaccia una scarpa. La mia invenzione mattutina appesantisce il leggero stato euforico che precede lo sparo. Dovrei fermarmi. Come capita. Dovrei tornare a casa davvero, accendere la radio, farmi un caffè. Sentirmi del tutto buono.