Corri per la Befana 2014. La piazza viene usata come viene usata, senza godimento, infibulata da automobili parcheggiate. Quassù c’è il bar dell’appuntamento circondato da corpi incandescenti di competitività, spalmati di nivea, parentetici, ripetitivi, sottili sopra la piattaforma panoramica. Corpi che non mettono da parte le energie le sprecano tutte in un giorno: oggi. L’azzurro del cielo non mi attira più, non ne parlo volentieri quando è così limpido da sembrare un soppalco azzurro sopra la testa. In un giorno come questo se ne va a puttane pure la totale malinconia di fronte al tributo emotivo di ritrovare il bisbiglio del saluto di vecchi amici: Roberto del maratoneta, Walter il presidente, Francone, Carmine, il veterinario spilungone, Annibale. Con un filtro potrei selezionare i migliori o almeno subappaltare la recensione e far parlare solo di loro, anche se l’operazione richiederebbe diversi giorni e io ho pochi minuti, alle dieci la gara partirà. Il punto immediato è che mi sono alzato troppo presto, come si vive in casa sua lo sa solo Annibale, io penso male, ma non mettetemi in bocca cose che ancora non ho detto. Lui è il libro più vero che abbia mai letto, ma ogni volta che mi viene voglia di rileggerlo mi pento di averlo fatto perché è un ritardatario cronico e mi pento di essere tornato in quella casa che conosco nelle più piccole ammaccature, crepe, nei scarabocchi sul muro dietro la poltrona di pelle dove ogni pomeriggio riposava sua madre, povera donna, povera fragile donna costretta a combattere una guerra privata con due sgherri come noi. Le sue punizioni erano sempre leali, ben divise tra i due e ogni volta annullate, -sei come tuo padre, diceva a lui che del padre non aveva nemmeno la più piccola immaginazione.- Non lo farete più , vero ? E ci mollava le caramelle della borsetta, quelle con lo zucchero intorno, quelle che facevano bene alla gola, e alzava il volume del giradischi per ritrovare l’allegria e cantava, cantava, cantava. Via Lemonia alle 7,30 sembra un dipinto di Piero Manzoni, monocromatico, solo una riga, bianca. La lista della spesa in tasca è uno stratagemma per non pensare troppo alla gara e disprezzare le mia velleità agonistica. Per annullare quella minaccia e per voglia di caffè entriamo nel Bar degli Artisti. Potrei distillare la posizione delle cose a occhi bendati. La toilette in fondo, il bancone subito a destra, la cassiera pure lei a destra con accanto il frigo dei gelati, vuoto. L’eliminazione selettiva di tutto quello esposto sulla parete serve a far scorrere il racconto, ma , volendo, potrei descrivere ogni pacco di biscotti e cioccolatini e il sistema di sostegno che li sostiene. La cassiera seduta su una specie di sedia ortopedica celeste dalla sua angolazione riesce a controllare chi entra e chi va al gabinetto, altre informazioni per lei sarebbero inutili. Si gioca bene quel piccolo silenzioso potere che ha e non le sfugge nulla. Lontana da me l’idea di incoraggiare la benché minima conversazione chiedo fingendo di vederla per la prima volta: -Due caffè, grazie. Una richiesta così precisa implica una risposta precisa, ma l’universo femminile è sempre sorprendente e... -Bentornati, che bello rivedervi. Io che non ho nessun problema emotivo nell’esercitarmi in un botta e risposta dico… -Piacere nostro rivederti, non sei cambiata. -E come sono? (ride) - Bella di una bellezza immeritata. -E cosa devo fare per meritarmela? -Niente , non devi fare niente, ma è facile vincere così. -E con voi ho vinto? Per non cacciarsi in un ‘attività esclusoria Annibale risponde un -Si, ammazzandosi di fatica a non fissarle a lungo il seno. Lei sorride, tirandosi una specie di cuscino in mezzo alle gambe, reclamando il suo imbarazzo. -Siete sempre i soliti birbanti, lo dice con velocità notarile per non farsi capire dagli altri. Andrebbe fatta una sana e seria discussione su birbanti che il mio vocabolario mentale traduce in persone scaltre e disoneste, ma fidandoci della sua ingenuità ci avviciniamo al bancone già battuto da decine di cappuccini. La fluttuazione delle informazioni metereologiche non ci interessa più, manca poco tempo e poco può cambiare. Il riscaldamento è una tortura di gruppo, nessuno ci rinuncia anche se serve a sentirti un po’ stanco prima di essere proprio stanco. Un pallone blu dice che lì si parte, e lo conferma la compressione magica dei giardini condominiali reduci da addobbi natalizi e i pini dello sterrato che sembrano soldatini acrobaticamente in fila sull’erba sbiadita. Mi sento troppo in qua e provo ad avanzare di qualche metro. Una staccionata femminile mi impone di accettare la mia posizione. Vedo solo a sinistra e a destra, davanti ho l’oblò opacizzato di due donne con il respiro inquieto e la frequenza di chi sta per partorire. Riconosco la tosse di Annibale. Due corpi più in là il suo viso bianco come un pezzo di sapone. Una ragazza che conosco di vista mi offre la sua bottiglietta di minerale. Non mi schifo perché è carina e bevo più di un sorso. Per gratitudine provo ad immaginarla con un bel vestito e con un buon profumo che non somigli all’olio canforato. Percepisce qualcosa, mi sorride e mi dice che si chiama Paola e corre con i Road Runners. Per rilassarmi penso a qualcosa di musicale e mi viene in mente il Lennon di Jealous Guy, la mia emozione mista al sudore passa inosservata. So fare il fischio di John, lo facevo sempre da ragazzo, lo ripeto e ripeterlo mi fa sentire quanto ripugnante sia la vecchiaia. Quando ti senti nel cestino dei rifiuti fischia la canzone di John, fischiala forte. Annibale mi sente, alza il pollice in segno di approvazione e sorride, è scemo come me, è vecchio come me. Un ciccione alle mie spalle foderato di superbia urla:-non ne sai un’altra? –si, ma non te la canto, rispondo. La gara parte senza sparo, almeno io non lo sento e svanisce l’idea di mettere a fuoco il ciccione per dargli un bel pugno sul naso. Annibale tossisce di nuovo in maniera più pacata, accanto a me ci sono Francone, Carmine, Walter e il veterinario, e ci restano per un paio di ettari d’asfalto, fino a Capannelle. Per essere uno che passa la maggior parte del tempo nella sua testa la compagnia è curativa, una medicina per non pensare a guai peggiori. Il sudore mi esce fuori dalle ossa. Francone è la mia guida turistica, -mancano quattro chilometri Tò, ce la facciamo ad andare sotto l’ora. Il pigmento del paesaggio è cambiato, si è fatto verde e marrone mentre sfiora l’ottetto di archi dell’acquedotto. Il mio aroma psichico è simile a quello di un reduce di guerra, di una brutta guerra. Un tratturo di campagna dove affiorano pietre bianche è un trampolino imperfetto verso un miglioramento cronometrico nel quale non avevo mai creduto veramente. Mi sforzo di chiarire quanta poca stima io abbia di me stesso, ma c’è sempre qualche intervento pronto a capovolgere le nostre debolezze, e Francone è l’intervento:- mannaggia Tò, ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta. E l’uomo spuntato si trasforma in proiettile proprio dove deve fare senza chiunque altro: gli ultimi cinquecento metri. La manona di Francone stringe la manona di Tò sotto il traguardo, per la foto, per l’amicizia, per buttare via la fatica dopo averla usata fino in fondo. Mi ricordo dello scontrino del gadget da ritirare, una sottile pettorina gialla. La ragazza con la caratteristica della dolcezza ci affianca, è Paola dei Road Runners, quella della partenza. Cullata e confortata dai nostri complimenti ci regala la cosa più bella che ha, un suo sorriso. Questo finale prendetelo come un’introduzione laddove alla velocità di un’ora tutto è cambiato, modificato, normalizzato. In meglio.