Passo la ghettizzante pop art di Ponte di Nona. Passo gli amici zingari, ghettizzati. Passo un puzzolente gregge e il suo pecoraio. Passo una via che è meglio di niente e così si chiama. Passo un centro commerciale. Passo un castello. Passo un ponte corazzato. Arrivo, c’è il cartello che lo dice: Tenuta del Cavaliere. -Non abbiamo tutti la stessa fretta, mi faccia passare. Ingombrante, metastatica, una donna monozigote, cresciuta grande e robusta come sua sorella idiozia, posteggia a un metro da me, su una porzione benpensante di prato della Tenuta, proprio sotto il fortilizio medievale. -Con tanto spazio… -Mi hanno imposto di mettermi qui, la gara parte alle 10, se non lo sai ancora leggi il volantino. -Devo fare l’iscrizione. -Ehhh…hai voglia tu, ne puoi fare cento d’iscrizioni. Non riuscirei a correre per tutti e cento. Si zittisce. Sollevo la gamba sinistra, la portiera a metà mantiene distante la gamba destra, non riesco a scendere. La monozigote si sposta e mi concede una discesa normale. Trovo un Annibale testimone oculare della sua stessa tristezza , una macchia scura accanto alla solita mercedes bianca. -Hola, Tò. -Tutto bene? Hai dormito qui? -Quasi. Alle 8 del mattino non è la persona spontanea che vuole sembrare, almanaccare su cosa c’è dentro quel liquido rappreso che è il suo cervello è impossibile, ci vorrebbe un trapano manuale facendo attenzione a non fare attenzione, per dispetto. -Dai, dimmi, che c’è? -Tò ,devi fare la gara? Fai la gara, no? -Voglio sapere. -Ho litigato a casa. -Ancora? -Si, ancora. Nemmeno finisce di dirlo che arriva un’auto piccola, coreana, di quelle da quaranta all’ora che sembrano di ceramica, quasi tutte rosse, pure questa è rossa. Scende una tuta ovalizzata con dentro la moglie di Annibale. -Sapevo di trovarti qui, non ne hai mai saltata una. -Perché non hai dormito a casa?..dove hai dormito?..con chi hai dormito? Annibale non risponde, ha lo sguardo più basso della borragine del prato incolto. Quella sincerità aggressiva sorprende anche me che non sono troppo distante e ascolto, sento l’afrore della sua tuta che sa di canfora e sudore appena sudato. C’è un lungo silenzio tra i due, torturati da un sole strano, a volte minaccioso, a volte rassicurante nel suo scompiglio di luce. Annibale maneggia un fazzoletto riciclato, umido, le sue dita a turno si fanno male. Toglie gli occhiali da sole, poi resiste alla tentazione di rimetterli. La tattica della disponibilità a parlare funziona solo nella disponibilità. I due sono:. In piedi- In piedi. Zitto-----Zitta. L’architettura della posizione è questa. L’architettura del dialogo è questa. Lei ha una pellicola negli occhi, osserva niente, totalmente scomparsa, incarnita nel bulbo oculare. Sfodera qualcosa che somiglia ad un sorriso. Umano sorriso, da donna, Umano sorriso, da donna avvilita. -Senti Annibale cosa vuoi ancora? Vuoi il sangue? -Te l’ho dato il sangue, non me n’è rimasto neppure una tazzina nelle vene. -Se ci penso mi viene da starnutire per il dolore. -Sono inconsolabile, inconsolabile, capisci Annibale? Il calcio emotivo nel sedere arriva a segno. -Si che capisco. -Volevo solo salutarti, ciccione, fai la tua gara. -Non chiamarmi ciccione, non lo sono, e non ho nessuna intenzione di correre, anzi me ne vado. -E no caro, ora tu non ti muovi, troppo facile togliere le tende, no no caro, non ti muovi. Vabbè. -E non dire vabbè, Cristo. Vab….. La Superga color fucsia gli arriva in pieno volto. -Disgraziato..disgraziato…mi fa piangere alle 8 del mattino. -Sono le 8 e venti, amore, e mi hai fatto male. -Non chiamarmi amore, porco. La Superga rimasta la para con un ginocchio. -Ma come ho potuto passare trent’anni della mia vita con un idiota come te? -Come ho fatto? -Con tanti uomini al mondo proprio a me doveva capitare il più imbecille? -Non sono imbecille, ciao. -Aspetta imbecille, devo darti le tue cose. -Che? -Ho messo nella borsa tutto il tuo curriculum vitae sportivo, almeno ti cambi. -Porco. Si siede sul muretto antico con i pugni tra le gambe e gli occhi chiusi. Nella borsa non c’è un calzino scompagnato, tutto è in ordine, profumato e stirato. -Non devi piangere. -Non piango più, Annibale. Più, più. Annibale si accosta inabissato e con un dito prende un lembo della sua tuta, lo tiene stretto per trattenere il tempo passato insieme, la sua quiete famigliare, il Natale, le vacanze, i figli, il cane, i pomeriggi al cinema, la pizza, le risate. Fermo, accovacciato, resta così. -Dai..devi correre no?....vai a correre. -Annibale non si muove. -Tonto, vai…. Annibale è dolore setacciato, visibilissimo nel bicchiere di un mattino limpido, agreste. -Vai con Tom, io vi aspetto qui. Non si muove. Non parla. Non respira. Annibale. La gente arriva a frotte, un luccichio di magliette sintetiche di bibite colorate, un protocollo provato e riprovato ogni domenica. Lui resta attaccato a quel lembo di tuta con tutta la forza possibile di un pollice e di un indice. Nulla cambia, mi allontano verso la partenza. Parto solo, corro solo, finirò solo, oggi non mi va la compagnia. Il percorso è tutto naturale, compresso tra l’interstatale che arriva ai mercati generali e l’argine del fiume Aniene con i suoi alberi secolari frondosi. Un po’ di vento ne frantuma e ricostruisce le ombre a intervallo regolare. Passiamo un tunnel sotto la ferrovia, una salita breve ci accompagna verso una lunga dirittura in pietrisco sonorizzata da spari di tiro al piattello. Una rotatoria di 2 chilometri tutta a maggese ci riporta sul percorso iniziale. A destra il campo di atterraggio delle cornacchie, a sinistra un fosso con acqua e ranocchie mute. Ancora tre chilometri per convincerci d’essere arrivati. Ancora tre chilometri per convicermi che quel litigio devastante non esiste. Qualcuno cede, qualcuno avanza, qualcuno non esiste. Niente m’interessa. Non mi accorgo della salita finale, breve, tosta. Mi viene da pensare gara non ti amo, corridori, percorso, aria aperta, salita, sete, acqua, salute, non vi amo. Tutto finisce, questo si. Annibale è rimasto lì dove stava. In cinquanta minuti non c’è stato spostamento fisico di un millimetro. Morale si. Lei gli accarezza il naso, gli occhi, la bocca. Lei che conosce benissimo i punti dove è invecchiato, le piccole rughe intorno agli occhi, le piccole crepe, le bollicine, la pelle morbida sotto il mento, li accarezza tutti quei punti, con le mani, come una cieca che ha imparato il linguaggio dei ciechi e li sa leggere. Si secca subito la lacrima di Annibale e nessuno la vede, nemmeno io. -Ti ricordi la promessa anti invecchiamento? -Quale? -Quella che diceva… noi due non dobbiamo invecchiare insieme, noi due non dobbiamo invecchiare affatto. -Si che me la ricordo, ma eravamo mezzi sbronzi. (ride) -Ti ricordi quando ci guardavamo allo specchio in camera da letto e facevamo a gara a chi faceva la smorfia più brutta? -Si, e tu.…. ridevi, ridevi, ridevi. -Fammene una adesso. -Fammi una smorfia brutta. -Dai. -Dai fammi la smorfia brutta. Annibale l’abbraccia forte. Non dico quanto forte, si capisce. Grazie Tò, per la delicatezza con cui hai saputo raccontare la mia storia. Annibale. Casale Tommaso