Collatino. Sono passate molte ore, ma ricordo bene quella gente che profuma di Nivea tutta la vita, il riflesso pesce azzurro impaurito dell’asfalto, l’odore e il colore del rosmarino nascosto in quel piccolo giardino senza fiori, senza e deciso a non averne, a essere passaggio per chi passa in un quartiere stanco e con poco stile. Inevitabili e croniche le nuvole mi sbattono in faccia da un bel pezzo, vorrei tanto riprodurre la faccia che ho fatto alle prime gocce di pioggia. Annibale , impiattato nel ventre di alluminio della sua automobile bollente di riscaldamento, comodamente curvo sul giornale smette di leggere e raggiunge la faccenda di massima importanza: me. Non pioverà, c’è un cartellone scritto a mano da me che lo impone, non pioverà. I ragazzi della squadra sono a destra, bevono acqua con le mani dalla fontanella artificiale di via Valente , la parte alta di ghisa è opacizzata, il flusso è sottile e freddo come un filo interdentale. Sono veri loro, quando mi salutano, sono vero me, quando li saluto. Fermatemi se sbaglio, ma penso che dovrei passare più tempo con i miei amici corridori e non grattugiarmi in corse solitarie, che poi a me piacciono le presenze, piace l’idea che intorno stia accadendo qualcosa o che almeno ci siano delle orme umane conosciute. Dico sempre che mi mancano e poi li tengo a distanza, quanto sono strano. Per non confonderli con il posto? Per non identificarli con il posto? Per non vederli invecchiare come me? Come me lo dico con amore. Prendo il largo dalla mascella pelosa di un orizzonte disarchitettonico, e mi siedo al bar. Chiunque potrebbe confermare che fa un cavolo di freddo e stare a sorseggiare caffè in una tazzina stupida con la decalcomania stupida di un chicco di caffè gigantesco davanti alla faccia tribale di un Annibale insonnolito che sbadiglia e un calendarietto da barbiere attaccato al muro con la ragazza di gennaio ora che siamo in febbraio solo perché ha gli occhi e il resto abbondante non è un obiettivo e se non considero la possibilità di alzarmi è solo per il fatto che è talmente presto che non saprei dove andare con la mia più che mezza età. (fatemi riprendere fiato) Per dire qualcosa dico: nemmeno un bidone dell’immondizia in fiamme potrebbe scaldarci. Annibale si sfila i guanti tecnici di cotone per ridere meglio. Gli occhi gli cadono dalla testa come due starnuti. Daniela dell’ENEL in completo yellow submarine ci ascolta concentrata. Fissa, ci fissa, dietro a una staccionata. -Oggi non ne indovino una. -Prova a indovinarne due, cosa vuoi veramente? -Cosa non voglio, un amico in similamico. -Cioè? -Un amico finto. -Mettici anche il nome. -Un Tommi finto. -Ora va meglio, si capisce. Mi abbraccia, sento i suoi seni a spazzola trafiggermi il petto, pungolarlo per un paio di minuti, composta e compressa come una che non vuole far vedere ai genitori che ha perso la testa per l’uomo sbagliato. Fuori un rumore può zittirne un altro se è più forte e succede che la voce ghiaiosa dello speaker supera l’impudenza del falsetto di via prenestina e l’arredo di fritti vegetali. Cinque minuti e questa partenza discount renderà giustizia e pubblicità a un eurospin vicino e inconsapevole. Il percorso sembra disegnato da chi non è riuscito a comprarsi una matita buona e per dispetto lo sceglie con un groppo in gola, a saliscendi. La manata di Roberto Tognalini al secondo chilometro è un barattolo di energia e coraggio, ricomincio a correre sodo. Passo nel quartiere modesto con i capelli appiccicati, lo sguardo dolcemente idiota saluta un donnone con sinale che stende i panni con le coscione in vista. Villa Gordiani è una villa fuori dal mondo delle ville, una specie di magazzino di sassi e fango che ha perso la convinzione di apparire fiorito e riesce solo a strizzare l’occhio a qualche anziano invisibile. Nessuno si deve vergognare di questo, invecchiano gli uomini, invecchiano i giardini, invecchiano i sassi. Roberta , targata Running Evolution, è di una bellezza disarmante, ma si allena poco e non regge il mio ritmo incandescente (6 al km), la salita le è fatale e mi dispiace molto perdere la sua generosa compagnia. Più si avvicina il traguardo e meno diventa scorrevole il percorso. In una gironda mi imbatto in Daniela Enel, bionda e sottile. Attraversiamo un prato a chiacchiere. Deviamo su un percorso lastricato coperchio della metro. Perdiamo velocità, non la voglia di scommettere con Mario e Pina su chi taglierà per primo il traguardo. La guerra casereccia tra poveri ci mette di buonumore. E’ lo stimolo giusto, le gambe di Daniela sembrano le pale di un elicottero: vola. Sparisce il mio pezzetto di oscurità, mi illumino e illumino il mio pantacollant nero a zampa d’elefante. Io e Daniela siamo il-Cari amici, Mario e la sua partner il- resto della lettera colorata, 50 metri dietro. Un impasto di pubblico residuo applaude ignorando la sfida. Per eventuali fotografi mi asciugo la fronte, faccio il colpo di tosse di chi potrebbe essere intervistato. Sbaglio l’arrivo, nessuno mi avvisa della svolta a destra. Torno indietro, lei mi segue proporzionando la mia ombra. Mi restituisce un sorriso che vale dieci dei miei. Per farla tacere le dico di non tacere. Mi sveglio nel cuore di un tardo mattino. Tocca un lembo della tuta e della mia vita semplice. Gialla nella luce gialla del traguardo. La sua pacca sulla schiena. Mi scuso con Daniela Enel per la mia invenzione. Mi scuso con Roberta Evolution per la mia accelerazione. Mi scuso con Rodolfo e Patrizio per non averli abbracciati più forte. Con Fernando idem. Mi scuso con il mio ginocchio da sciatore per non averlo portato più a sciare. Mi scuso con il mio umorismo fasullo. Mi scuso con la mia malinconia fasulla. Mi scuso con il ricordo imbarazzante del ristoro per aver preso una crostatina in più.