Corri al Collatino. A casa di Annibale c’è la rima: mattino presto, mattino fresco. Con voce doppiata e robusta sostituisco il campanello, la sedia dietro la porta che fa da chiavistello sbatte per terra, entra pure lei nella sua paura stratificata, i ladri, il buio, i topi, l’abbandono. -Ciao Tò lo dice con una riduzione di voce infantile. L’eccesso di spazio di quella casa ti fa stare fuori scena fino a che non superi i trenta metri di corridoio, poi appare tutto e appari pure tu nella geometria rettangolare della grande cucina. -Ho messo su il caffè. -Moltiplicati caffè, moltiplicati. Inutile, una caffettiera da una tazza sarà sempre una caffettiera da una tazza. -Da due, prego. -Pensala in questi termini la solitudine, pensala in qualcosa di malsano, in un laboratorio per obesi, in un hangar gigantesco per depressi con luci accecanti dove sparisce ogni possibile, probabile, carnosa versione integrale di vita sociale. Pensala così la vita di Annibale. -Capito, sono rughe di cuscino quelle, ti sei svegliato male Tò e devi smettere di bere. -Non dimenticare i numeri. -E tu non li dare, i numeri. Sono quasi le 9 e saranno le 9 quando la macchina di fronte avrà finito di parcheggiare. Dopo un’attesa ambulatoriale appare un sole circonciso, prevedibile, imprevedibile, a scelta. La natura ha il suo anticipo primaverile che impone di passare un bel po’ di tempo a osservarla, mandorli e ciliegi sbuffano di fiori bianchi e rosa ignorando il compito ingrato di avere inchiodate inimmaginabili bacheche legnose pubblicizzanti palestre, orchestre, balli di gruppo, badanti senza nome, circhi senza animali. La portiera dell'auto piccola e ammaccata si apre e scende una donna conforme, piccola, ammaccata. -A saperlo che eri tu avrei guardato le gambe con più attenzione. -Potevi informarti prima, e poi sono corte che gusto c'è. (ride) Come stai Tò? -Non chiederlo a me sono proprio quello che non sa rispondere. -Come a scuola, sei da ultimo banco con i capelli attorcigliati intorno alla faccia come esempio di fuga, enon sei cambiato se hai paura a far sapere come stai. -Sono solo più vecchio, ma sto bene. Tu come hai fatto a riconoscermi? Chi invecchia non si riconosce. Tu hai gli occhi colorati uguale, stessa riga storta e stessi capelli, hai pure i lacci di liquerizia in tasca? -Ho due bambini Tò, i lacci di liquerizia semmai li compro a loro, ma possibile che tu non ti renda conto che si cresce? -Sei umana e calorosa come un bidone dell'immondizia acceso, ma mi piace stare vicino alle tue fiamme. La risata prova a nascondere quell’imbarazzo antico mimetizzandolo sotto un’ espressione strana, fuori moda come la mia tuta. La calligrafia del panorama sbiadisce disinfettata da quel dialogo buono e cattivo, mi asciugo la fronte con un kleenex scovato in una tasca interna e resto aggrappato al fil di ferro che non sostiene niente oltre un brandello di plastica ingiallito, pubblicitario. -Se ti va la facciamo insieme la gara, ho resistito tanto tempo senza raccontarti nulla, ma qualcosa devo raccontarti. -Se andrai alla velocità della segatura spostata dal vento, si. Faccio un sorriso fiacco per colpa di qualche dente sottobraccio con il dentista e di uno spirito sportivo che si è arreso al peso da camionista. Mi pianta gli occhi negli occhi, e non sono due, sono una ventina, cala il cappuccio della felpa sulla fronte accompagnato dalla sinfonia sgangherata dello lo zip tirato a metà e si allontana. Saluto le sue spalle, l’azione si indurisce e la mano destra contratta resta lì a fare ciao a un areoplano. Mi sento più stupido di un torneo di burraco. Annibale, mi ero dimenticato di lui, sta con le orecchie tese rivelando che è ancora tecnicamente mio amico. -Tutto a posto Tò? -Tutto a posto. -C’è la faccenda di fare colazione. -Troveremo il solito bar affollato, la solita azione romantica verso una cassiera stronza, il solito barman con i peli nel naso, le solite proprietà nutritive di due cornetti, il solito prelievo di zucchero e di cappuccino. -Sei proprio scemo Tò. (ride) Giochiamo sporco e con un voltafaccia simultaneo evitiamo uno di quelli forti della squadra che ha cambiato squadra. Questo è uno dei misteri dell’umanità, quelli bravi cambiano squadra con la scusa pronta, ed è un dolore intollerabile per chi crede in questo sport e nell’amicizia senza confini. La finzione di dedicarci all’osservazione dell’insegna del bar funziona e funziona pure il bar. L’entrata bituminosa tappezzata di immagini balneari e di cattedrali fa capire che è un locale riservato a quelli non a posto con il cervello che se partono è soprattutto per scrivere cartoline a un bar in crisi, nella speranza che si rimetta in piedi da solo a suon di slot machine. La cassiera profuma di bagno serale e dà l’idea per colpa degli occhi infossati di una che piange spesso, o che ha sofferto il solletico da ragazzina. Con voce nevralgica pubblicizza fette di un dolce di rose in mostra sotto una campana di vetro sbilenca e opaca. -L’hai sfornato tu? -Mia madre, -anzi dice: -mamma. Ha una camicia larga e poco seno, gli occhi che usa sono del colore del dopobarba che non uso, blu. Fuori un parco marginale senza alberi adatto a pisciatoio per cani. Una vasta gamma di uomini e di donne ingrugnita dimostra come sarebbe straordinario vivere standosene a casa a quell’ora, sotto le lenzuola, senza calpestare con la gomma delle scarpe l'erba croccante di gelo e senza dare spiegazioni a mogli, mariti, amanti. Si parte alle dieci, un filmato girato con cura da una regia competente guida la velocità di uomini braccati fino alla via prenestina. Il film a basso costo continua nel quartiere. Dopo uno squarcio di discesa una ragazza con bandierina e sigaretta accesa in bocca, grassa come una mozzarella di bufala, con lo sguardo densissimo di umanità, ci spinge all’interno di villa Gordiani. Sembra suggerire non copiate il mio stile e la sua scelleratezza, ma la realtà è solo un’illusione ottica (Kokoscha). La ragazza è della protezione civile e me ne innamoro subito perchè il visibile cela l’invisibile. Vivo le ultime salite come un’ingiustizia, ma soffrire avvicina e il desiderio di trasformare questo sport in forma di comunicazione ci guadagna. La foresta marrone di case sta per sparire in un finale più aperto e più comprensibile. Improvvisamente si scende nel parcheggio del supermercato e lì ci si rende conto che non siamo eroi, ma uomini caricati a molla. Gli eroi hanno un trattamento migliore, hanno applausi e non il benzene di auto in moto o accese da ferme, e ancor peggio la compassione di chi fa la spesa domenicale. La salita finale è infinita, per farmi coraggio faccio coraggio a un omone con il nome scritto sulla schiena, Marino. –Forza Marino, se non hanno spostato l’arrivo in avanti siamo quasi arrivati. L’omone invece di mandarmi a quel paese mi sorride. Se mi vedesse mio padre. E forse mi vede. Mi sorride pure lui. Un saluto a Giancarlo che ha rischiato la multa solo per vederci correre. Un saluto a Nazzareno che si è impaurito quando gli ho detto che avevamo un numero in più, e poteva correre pure lui. Un saluto a Carlo, ristabilito. Un saluto a Rodolfo che fa le veci del presidente e forse è presidente davvero. Un saluto a Carmine che è di un’altra squadra e più amico di quelli della mia squadra, non mi ha mollato mai, neppure quando si è allontanato. Un saluto a Annibale, che non esiste è una mia invenzione narrativa. Un saluto a una mia amica che mi ha chiesto -perché non corri la Roma Ostia? Le ho sorriso e non ho risposto, rispondo da qui. Perché costa più della Roma L’Aquila, due euro a chilometro, e un pensionato fa strade alternative.