Mariano. Al bar delle case popolari il caffè te lo servono al vetro e le ragazze hanno sempre la sigaretta in bocca. Al bar delle case popolari mi sento fico perché ho l’auto senza borchie e uno sportello incidentato. Al bar delle case popolari i ragazzi hanno quasi tutti il pitbull e se non si ricordano il tuo nome ti chiamano << ciccio.>> Non dico che ci ho consumato metà della mia vita, ma un terzo del cervello si, a parte distrarmi con qualche ragazza dell’est dal tacco rumoroso ero l’unico che leggesse il giornale, quello attaccato al bastone, e gli altri venivano a chiedermi la recensione di un film, i risultati di una partita, il costo di un concerto e consigli su strazianti conflitti sentimentali. A me spettava leggere, a me spettava descrivere, raccontare, capire, indagare, creare un mondo diverso con le mie parole. Con questa scusa ogni tanto mi infilavo nel letto di qualcuna, ma erano rapporti brevi e scalcinati anche se restavamo simpatizzanti perché le trattavo bene. Così dicevano:<< tu non sei un figlio di puttana.>> E io ero contento, con i lucciconi agli occhi perché mi mollavano, ma contento. Il modo migliore per descrivere l’atmosfera di quel bar è: immaginate di partecipare a un cocktail party con gente appena uscita di galera ma con il cuore buono che si sposta da un tavolo all’altro per raccogliere consensi in una materia a caso seguendo il cerimoniale molto preciso di avere l’accessorio alcolico in mano da scolare e meno riservatezza possibile nelle battute facili. Il turbinio collettivo solo all’ora di pranzo si estingueva sostituito da un vagone zeppo di orientali. Mariano era la replica di me stesso, pure lui leggeva il giornale, pure lui non fumava e parlava di sport, pure lui guidava la mandria di ex disastrati dentro scenari meno eccesivi come la ricerca di qualche tipo di lavoro. Esistevano un’infinità di prove schiaccianti che avesse una tresca con una delle ragazze delle case popolari, quella sottile come una foglia di cipresso e con gli occhi a pallone e che usasse antidepressivi. Il poco sofisticato macchinario mentale dei frequentatori non l’aveva capito, io si. La sua naturale predisposizione, non dico a essermi amico, ma a parlare con me, era profonda come le descrizioni marine di nuotate infinite coperto da grasso di foca, come le descrizioni dei pesci, dei camion di meduse che non sempre riusciva a schivare. Quello che mi affascinava dei suoi racconti era il rifiuto di essere convenzionale, viveva il nuoto come qualcosa di miserabile per battere una vita miserabile. Non lo so spiegare bene, lui non vedeva lo sport come salvezza, come redenzione, lui vedeva lo sport come schifo che poteva battere lo schifo. Questo modo terribile di interpretarlo era una sorprendente novità per me, una novità che non avevo mai letto da nessuna parte. La sua strategia era di alimentarsi con un pezzo di cioccolata fondente prima di tuffarsi in mare e poi di nuotare a largo, verso l’orizzonte, senza stabilire un termine preciso, di nuotare fino al mancamento delle forze, sepolto da onde aggressive, dure e fredde come il vetro di un parabrezza. Accaduto questo provava a ritornare a riva, senza la convinzione di riuscirci, con il desiderio di non riuscirci. Una dipendenza assurda la sua. Non c’è nulla di più democratico di rischiare la vita, tutti possono farlo, diceva. Di trascurare, di trascurare la vita, questo diceva. Mi sono sbagliato. Diceva, perché Mariano non c’è più. La ragazza delle case popolari la incontro al centro commerciale e ci facciamo due chiacchiere. Può darsi che ne esca qualcosa, penso, che rimediare un po’ di sesso con lei non mi dispiacerebbe. E ci prendiamo un caffè e in punta di piedi mi chiede: -perché non l’hai fermato? Al tappeto, facendo una fatica bestia nel cercare una voce convincente rispondo: -perché non potevo. Si liscia la gonna sulle gambe e sospira. << Ora, tanto per cominciare ti prenderai cura di me. Avevamo tanti progetti io e Mariano. >> << E io che c’entro? Dico. Tu stai cercando una scusa per scaricare la situazione su qualcun altro. >> << C’entri, c’entri eccome. Ogni virgola, ogni parola che gli usciva dalla bocca era accompagnata dalle tue iniziali, da nome e cognome, lui viveva sotto la tua ombra, comincio a sospettare che tu l’abbia plagiato con i tuoi bei discorsi, con l’aria da intellettuale sfigato che hai. Ma andate a lavorare invece di chiacchierare tutto il giorno al bar, andate a lavorare porca miseria! >> Il suo pianto è più rumoroso di un annuncio pubblicitario, la disposizione a schiera dei box commerciali tiene distratta la gente che ci sfiora. La stringo forte a me, è la prima volta che l’abbraccio, con il passare dei minuti mi sto affezionando alla sua figura. - Mariano aveva una passione incandescente per te, dico. - Ma se nemmeno sapevi della nostra storia, non dire cazzate. L’alto tasso di ossigeno dell’aria condizionata fa galleggiare le nostre preoccupazioni fino al soffitto di legno. Provo a mollarla giusto per farla respirare meno disperata. Non si libera, resta nella stessa posizione per minuti. Il mio ruolo, adesso, non è di sostituire Mariano, è di farlo tornare in vita. Un ruolo pazzesco, tremendo, impossibile. Dopo lunga pausa annuncio: << Ti dirò una cosa.>> << Che?>> << Domani andrò in quel posto dove andava lui a nuotare e nuoterò pure io.>> << Senti, è la cosa più triste che potresti fare per me, se vuoi farmi sentire in colpa per qualcosa non ci riuscirai, a che ora?>> << A una riproduzione di quel mattino.>> Siamo al parcheggio, da una tasca interna sfila una sigaretta ammaccata, una di quelle che si tiene per emergenza, e la fuma. A ogni tirata dice: <> Poi si asciuga una lacrima con il palmo della mano e tira su con il naso. Restiamo a guardarci uno di fronte all’altra, non sapendo più cosa dire. Metto la mano nella tasca destra della giacca per trovare una posa rassicurante, sento l’incarto di un torroncino natalizio. Mi rendo conto che il mio vizio infantile di tenere dolcetti in tasca è avvilente, e ritraggo la mano. Tutto quello che accade è più grande di me, ma non ho scampo. Il torroncino, comunque, mi ha rilassato, mi sento a mio agio e le racconto non quello che ho combinato nella mia vita, ma il giorno prima, e qualche programma per il futuro, il giorno dopo. Lei mi ascolta con gli occhi fissi, sbarrati, di chi guida un’automobile nella notte. Poi esordisce con: << Sta’ a sentire! Uno che fa una cosa del genere è già mezzo matto di suo, tu non ti immischiare e non darti colpe, e non imitarlo e scusami per prima >> Il motivo perché sono qui alle 9 del mattino è perché provare, sentire, non sono la cosa vera. Sono qui per un ingiusto lutto intimo che porto dentro. Una delega di lutto intimo. Mi spalmo il corpo di nivea, entro nell’acqua senza tuffo. Camminando nella schiuma floscia e fredda divento più piccolo di un quarto di pollo. Dopodiché comincio a nuotare a rana, lentamente, molto lentamente. A poter prendere appunti su come mi sento scriverei: strano. L’orologio subacqueo è un accessorio importante, è passata un’ora. Mariano ha tracciato una pista, devo solo ritrovare le sue orme. Sono passate due ore, il sole appare di botto come luce in una stanza buia. Le dita sono indolenzite, sento decine di schegge sotto la pelle. Non ho sete e non ci sono indicazioni, potrei non tornare più. Mi sembra di risparmiare energie se nuoto di fianco, nessuno controlla il mio stile. Le onde sono righe orizzontali tracciate con l’inchiostro, stiamo viaggiando insieme, ma solo io sono il seppellito. I miei sentiranno la mancanza. Il cane pure. Penso. Sto imparando un sacco di cose qui. Mi farebbe molto piacere rivedere tutto quello che ho già visto. Mi farebbe molto piacere. Anche la ragazza delle case popolari. A volte le cose si aggiustano da sole. Galleggio senza muovere nulla, il sole è pallido, più pallido, passano minuti. Vorrei asciugarmi le dita bagnate, solo le dita, precisamente in questa monocultura acquatica di essere umano, in questo spazio grande diventato prigione. Devo trarmi in salvo, poi mi ringrazierò come quelli che ti salvano la vita e che non hai la forza di guardare negli occhi per la vergogna di averla rischiata e da eroi diventano per te fonte di paura. Mi guarderò negli occhi. Appena. Per non impaurirmi. Al ritorno sulla corsia opposta c’è quello che c’era sulla corsia opposta di prima. Niente. Vado dritto con il riferimento delle poche parti in muratura sulla spiaggia alla velocità di un relitto alla deriva. Sono le tre del pomeriggio. Ora la vedo bene, c’è qualcosa che saltella come saltellano i bambini dopo un regalo inaspettato. La spiaggia ha le dimensioni e il colore di un biscotto bruciato. Ho una gran voglia di essere toccato, fosse pure la manovra della decalcomania di un essere umano. Ho una gran voglia che qualcuno mi rivolga la parola. L’insegna del suo corpo è una circonvallazione lontana circondata da fette grosse di ombra. Ora vicina resta immobile per un pezzo, non mi saluta, come se fossi una sostanza accanto a lei già da tempo. Ci metto un po’, ma poi capisco che è la ragazza delle case popolari, minuta e chiara come un giglio delle dune. << Ti dirò come faremo, urla.>> Strofina le mani insabbiate sui fianchi e si getta in mare con la gonna plissettata scarlatta e i piedi scalzi nebulizzando la battigia. Un difetto di programmazione la fa sembrare spaventata, più di me, ma il suo aerosol funziona. << Provate a separare una paziente dal suo dottore, provateci.>> Dice. Sono contento come al ristorante dell’ippodromo testimone oculare di una mia vincita. Beatamente cieco ed esausto di sale capisco che fare il finto morto non mi serve, o muoio davvero o niente.