Un Natale copia incolla. Dove prima c’era un cielo c’è un altro cielo, scuro, senza luna e senza stelle. Il traffico è un cibo naturale per una città che altrimenti morirebbe di noia, i SUV non sono più SUV, le macchine sono tutte piccole, compresse come aspirine. Io continuo la porcata di starmene a leggere il giornale con il liquido nero del mio caffè, le mie sigarette, e la novità di imparare a memoria che faccio bene a starmene seduto per i fatti miei. Il vantaggio di vivere da solo è proprio questo, evitare gli spostamenti e godermi la scena di chi si sposta, fuori dalla mischia ruminando ricordi infantili amari e infelici della vigilia di Natale. Con la faccia vicino più del mio dentista una donna canticchia - si è fatto buio fratello, si è fatto buio, non so tu come la pensi. L’agguato è indolore, sono abituato agli sguardi dolci che vogliono farti apparire intelligente se gli dai qualche moneta. Può capitare pure che una sconosciuta mi avvicini calorosamente reputandomi distinto, serio, coscienzioso o semplicemente esperto in una materia a caso. Parlo alle pagine del giornale del giorno prima alla luce fioca dell’insegna, ma lo sforzo di parlare con qualcosa di inanimato diventa intollerabile, per non sentire i miei lamenti mi devo tappare le orecchie. Chiudo il giornale su una notizia scaduta, a una pagina dispari perché sono dispari e pugnace. - Buon Natale fratello, buon Natale. Il segnale è forte, e anche se sa di imparaticcio sembra dire non voglio metterti di cattivo umore. O me la squaglio o la invito a prendere un caffè, penso. - Siediti, ti offro qualcosa. - No no, non voglio nulla. Le uniche informazioni che ho di lei sono che è molto curata anche se il viso è buio come la notte stessa. Dà l’idea di una che ama arrampicarsi sugli alberi per guardare il lontano che è in te, e da lassù vede tutto, anche che non hai nessuno con cui parlare. - Faccio solo il mio lavoro, fratello. - Se continui a chiamarmi fratello il tuo lavoro è illegale, io non ho sorelle. - Sembra un’altra città con tutte queste luci. - Avevo visto, vero, sono belle, ma ora lasciami in pace, è quasi ora di cena e io ho fame e la peggiore tristezza della giornata, non ho voglia nemmeno di respirare . - Non ti lascio, ma cosa pensi, che se tu smetti di respirare tutto finisce? Povero illuso. La città continuerà, la stazione di servizio sarà ancora una stazione di servizio con il suo bar e il suo piccolo supermercato di merce incellofanata, il traffico sarà ancora un traffico, e ci sarà sempre tanta gente che metterà le luci intermittenti avvitate alle ringhiere e ci sarà un altro Natale e un altro ancora e ci saranno le decorazioni, ci sarà l’erba, la pioggia, la neve, le piante, gli alberi, gli animali, il mare, e ci sarà tutto, sempre tutto tutto quello che vedi. Le sue lacrime schioccano rapide come una bandiera a un vento improvviso. Si sente il rumore, non racconto balle. - Non volevo turbarti, scusa. - E che scusa, che scusa. Comincio a sentirmi un vicino sgradevole e a mettere lo zucchero nel caffè e a girarlo lentamente, infinitamente, dimenticando che lo bevo amaro. Penso, è un’anomalia questa donna, prima o poi sparirà, devo solo aspettare che tutto si normalizzi. - Ti sto trattando come una sana di mente. - Io pure. Il suo sguardo pesa come due borse della spesa. - Senti… non vuoi un caffè e qui non ci sono caminetti, non posso invitarti a mangiare castagne, quindi lasciami in pace. Mi guarda come di solito la gente guarda la mia automobile invecchiata, senza ammirazione. - Va bene, allora siedo, a stare in piedi mi si addormentano le gambe. Abbassa lo sguardo e sorride, ora, con una certa densità di amore, non per me. Paradossalmente il suo indice di ascolto si è elevato, anche se sono sempre io ad ascoltarla. Seduta ha la struttura semplice delle cose belle, belle e vitali. Tocca a me conservarla, chi altro potrebbe farlo in questa stazione di servizio? Anche se non riesco ad immaginare uno peggiore. Alle brutte posso sempre far marcia indietro, anche se duro e doloroso sono bravo a far marcia indietro. La sua gratitudine per starmi seduta vicino è toccante, è gioia. Quando si accorgerà che sono un emerito stronzo passerà quel sorriso pirotecnico, passerà eccome. Secondo me non becca un abbraccio dal paleolitico, non è di polistirolo, è di carne, gradevole, orgogliosamente femminile, ma dà l’idea di una che ha dato alle fiamme ogni inventario di amicizia e rapporto con gli uomini. L’inverno è di una crudeltà spietata, fa freddo per niente. La gente è quasi tutta sparita, il piccolo supermercato sta per chiudere e tra poco sparirà pure lui, il Natale non è una festa occasionale. - Ci si vede tutti a casa di qualcuno che cucina, tu sai cucinare? - Nemmeno per sogno. Si aggira nell’area limitata guardando dentro la luce gialla dei lampioncini, seguo il suo rumore di tacchi, poi sprofonda fino al busto nel buio del bagno delle donne protetto da un parapetto sinusoide. Di sicuro non deve fare la fila per la pipì. Torna a sedersi e sussurra- scusami. - Ma figurati, posso chiederti come mai sei qui? - Ho la macchina in panne, il meccanico mi ha consigliato di tenerla chilometri più in qua, insomma di non farci un metro e io non ce l’ho fatto e visto che questa era l’unica sedia del posto mi sono avvicinata a te, poi se credi che l’abbia fatto perché sei un bel figo sei fuori strada di parecchio. Ecco. E tu perché sei qui? - Con tutta onestà un pochino mi ero illuso di essere la scelta della tua vita. Rido con amarezza, ma rido. Vengo spesso in questa stazione di servizio, è l’unico posto fuori mano che conosco e a me piace essere fuori mano. - Perché? - Perché scrivo, leggo, bevo, fumo e non ho nulla da temere. - Bevi caffè o…altro. - Solo caffè, anzi cappuccino al mattino. - Allora non sei uno scrittore maledetto se non ti fai di assenzio. Ride. E cosa scrivi? - Favole. Scrivo favole per bambini. - Ma… veramente? Quando ti ho visto mi sono detta ecco lo sciupafemmine di provincia in posa. - Sciupo solo me stesso, mai sciupato altri, cara mia. - Ti credo e scusami se ho pensato male di te. - Hai fatto bene a pensare male. Rido. - Favole per bambini, non ci posso credere e ora cosa stai scrivendo? - Questa. La donna ha un sussulto, ospite trafitta da un incontro smodato, non previsto, con il racconto di se stessa. Si asciuga le mani, improvvisamente sudate, sulla gonna. - Stai scherzando vero? - Mai stato più serio, lo dico con timidezza subacquea. - Si soffia il naso per colpa di un raffreddore inesistente, è la prima volta che vedo i suoi occhi. Sono occhi che si pagano da vivere da soli, il resto del corpo potrebbe sparire e loro continuerebbero ad essere autonomi, a osservare e a essere osservati per come sono belli, lucidi e innocenti. Mi metterei a pregare per avere il prodigio di vederla contenta, ma posso solo scrivere che è più in gamba di me, per devozione verso i lettori. Per il momento non c’è nessuno all’altro capo del filo e devo restare anaffettivo, non distante però. - Perché stai zitto? - Sto analizzando un po’ di dati. - Tipo? - Sono quasi le diciannove, sta chiudendo tutto e noi non avremo neppure un panino da mettere sotto i denti la vigilia di Natale. - Il benzinaio è di turno, me lo ha detto prima sofferente, ci faremo invitare da lui. Ride. - Chi Piombo? Come candidato chef lo vedo male. - Piombo? Si chiama Piombo? E’ un killer? Ride. - E’ uno sempre a fondo con i debiti, e gli hanno mollato questo soprannome. - Mi sta simpatico se sta a fondo, diamogli il benvenuto e invitiamolo, dai. - E cosa gli offriamo? Un wafer, un cappuccino e una Winston Blu? O insetti fritti? - Lo vado a cercare. - Quello ha la capacità di dormire ovunque, ma se lo trovi sarà perfettamente lucido in un secondo. Acchiappa una mia carezza di incoraggiamento sulla spalla e se la porta via. - Il gabbiotto è inquietante per sporcizia, ma Piombo mi ha mostrato una bella dispensa di scatolame e pasta, e due fornelli elettrici collegati con un congegno strano per consumare meno corrente, dice lui. E poi ha la camicia a fiori, sai non avevo mai visto prima un benzinaio con la camicia a fiori. - Se è roba chiusa non mi schifo, e un figlio dei fiori non può che essere dei nostri. Rido. - Siiiiii! - Come fai ad essere così contenta? - Proprio non lo so, ma sono contenta, sta brutto se sono contenta? - No… - Maria, mi chiamo Maria. - Ecco Maria, non sta brutto per niente, Tò…io sono Tò. Maria è vergognosamente bella e felice sotto il suo cappotto di vigogna celeste. L’unico vento disponibile sposta l’intervallo di nubi e appare un gigantesco cielo di stelle artificiali, senza marca, ma con molta luce. Una, grossa come un camion sta proprio sulla nostra testa, e dice: – non è come sembra, non sono uno di quei stupidi satelliti o un errore stenografico del cielo, sono una cometa. Piombo apparecchia con una tovaglia rossa di carta, l’unica che non puzza di benzina. Poi tira fuori la sedia della cassa, quella con lo schienale imbottito in cinz verde e un taglio di vecchiaia sul cuscino e la offre a Maria, io resto seduto su quella di alluminio con lo scoubidou quadrato color petrolio fatto con tendini di plastica cinese. A tavola c’è una foresta di lattine di coca del distributore più una bottiglia grande di minerale incominciata. - Quando deciderete butterò la pasta, urla Piombo affacciandosi dal gabbiotto fumante di vapore acqueo, con l’eccitazione della grande impresa. - Butta, lo dice un coro duale che si guarda negli occhi, mio e di Maria. Sento sulla lingua il sapore del tonno in scatola cucinato bene. Piombo mette gli occhiali da vista con le stanghette convergenti, è buffo il suo modo concentrato di mangiare gli spaghetti. Maria con una mano scansa un ciuffo di capelli dalla bocca e con l’altra fa lavorare la forchetta di plastica. Mangiamo tutti con un appetito senza imbarazzo, con la competenza dei vecchi amici. -Non c’è nemmeno un bicchiere di vino. -Ma tu non bevevi cappuccino, Tò? -Per la cena di vigilia farei un’eccezione. -Ho dei pacchi regalo che mi hanno lasciato i clienti affezionati, ora guardo se c’è del vino. Torna simulando malamente di non aver trovato nulla, poi moderatamente spiritoso tira fuori una bottiglia di Barbera da dietro la schiena. -Evviva, evviva il Natale, evviva Maria, evviva Piombo. -Tò non chiamarmi Piombo, lo dice con occhi infinitamente infelici. -E come? - Mi chiamo Giuseppe, nessuno lo sa, ma mi chiamo così. -Perdonami, Giuseppe, perdonami davvero. - Ma niente dai. E mi abbraccia, sbronzo di commozione. Maria soffia via la schiuma rossa dal suo bicchiere e sorride. -Cin cin agli uomini più amabili del pianeta. Io e Piombo (Giuseppe) ci guardiamo negli occhi delusi da quel brindisi anonimo e restiamo in un rancoroso silenzio. - Ma a voi, solo voi lo siete. Lo dice con forza inaudita come se noi avessimo sostenuto a lungo il contrario. - Bè, allora, grazie e cin cin alla donna più bella del pianeta. - Lo ero Tò, una volta, ma desso in queste condizioni… - Che condizioni? Lo dico spaventato. - Ho il ventre che lievita come una focaccia, non vi siete accorti che aspetto un bambino? - Ma dai. -E si, ottavo mese e non so nemmeno chi è il padre. - Sarà stata opera dello Spirito Santo, spara un Piombo ingelosito che la fissa all’altezza della fibbia del cappotto, poi si alza di scatto per fare un pieno di benzina a un cliente. Quando torna ha un mazzetto di foto in mano. - Queste le ho scattate questa estate, così ci scaldiamo un po’. - Sei tu quello che rema? - Si sono io, lo dice con una punta di orgoglio.- La spiaggia alle nostre spalle la chiamano Le Maldive del Salento. - Questa tettona che ti bacia chi è? Maria scoppia a ridere e diventa tutta rossa. - Ehh, magari, mi bacia per finta, è l’animatrice del villaggio. Vado a vedere se è uscito il caffè, non vi muovete. -E chi si muove, anzi io sparecchio. -Tò, non mi sento bene, forse il vino, chiama Giuseppe. - Piombo, Piombooooo dove cavolo sei? - Qui, Tò, sono qui. Piombo è più veloce di un tiro di sigaretta, restiamo testimoni oculari dei dolori di Maria per poco. Andiamo in ospedale, Maria non sta bene e nelle sue condizioni non si può sottovalutare nulla. Al mattino… Ho lo sguardo di chi ritorna da qualche altra parte. Sento il rumore di tastiere e il cinguettare di un messaggio telefonico. - Lei è un parente? Lo chiede una donna in garza bianca con il nome sul seno e la sensazione che abbia avuto il diploma di laurea con un voto truccato. - Guardi ho passato qui tutta la notte, sono tornato a casa per sistemarmi un po’. - Si è sistemato male, data e firma, grazie. -Mi suggerisce la data? - Non sa che oggi è il 25 dicembre 2013, ed è Natale? La presa è brutale, ma non reagisco. - Si che lo so, volevo una conferma. - Ha voglia di scherzare, beato lei. Stanza 126. La camera è tutta bianca, profuma d’ammoniaca. C’è un letto con l’anima di alluminio accostato alla parete insieme a un comodino da dove sbucano le sue scarpe con i tacchi alti sopra un vecchio cruciverba lasciato dalla mamma precedente come souvenir. In bella vista un’insalata di cioccolatini. Una sedia di metallo è il resto dell’arredamento, ma la stanza non sembra vuota, tutt’altro. Le mie rose mi restano in mano, mi avvicino alla finestra grande per dargli un posto all’aperto, l’aria fresca e dolce le conserverà meglio. Trovo un vaso di ciclamini e un altro di vetro, incrinato e vuoto. In lontananza si vede l’autostrada e il suo fiume di traffico, qualche collina coperta di case, qualche montagna coperta di neve, qualche cipresso, le ombre verdi dei biancospini, ettari di campi di granoturco mietuti e non mietuti. Il panorama finisce lì, accanto ai secchioni per l’immondizia differenziata. Un volo di beccaccini si ficca in una nuvola bassa e distante, bucata da un campanile. Piombo è seduto piuttosto comodo sul letto accanto a lei, con la sua devozione si è guadagnato un posto in prima fila, tra le mani gli galleggia un fiocco celeste, ha la giacca e il farfallino e gli occhi rossi di chi è stato sveglio tutta la notte perché non ha ancora imparato a dormire. Abbraccio Maria con lo sguardo indolenzito. Pezzi di sole si riflettono sulle maioliche del battiscopa. Maria è serenamente felice e si gira su un fianco. -Farai meglio a sederti Tò, tra poco mi porteranno il bambino.