Domenica 17 Aprile, casa mia. Tutto quello che mi compete alle 7 del mattino è la mancanza di rumore, le stanze vuote chiuse a chiave, uno sguardo ai miei quadri appesi, la cucina pulita senza nessuno che abbia spazzolato gli avanzi alle 3 del mattino, senza nessuno che si sia attaccato alla bottiglia di cocacola lasciandola spremuta come una prugna secca fuori dal frigo, senza nessuno che accenda il dvd, la radio e tutte le luci possibili. Senza nessuno che tiri lo sciacquone e tossisca soffocando la tosse e la risata con una mano. Vanno via gli anni e vanno via i figli. Ti rimane un dolore seghettato. Gina non abbaia più, non ce la fa da sola a tenere animata la casa, sposta il suo pluto di gomma, lo porta sul divano e lo lascia lì. Non è un’ immatura, lo fa per malinconia, per ricordarsi quando quel gioco era lotta, era corsa mai da sola. Con gli occhi inzuccherati dalla necessità di non restare in quei pensieri e una impetigine cronica alcolica sul viso salgo in macchina alla ricerca di passeggeri. Nell’auto, attaccato allo specchietto ho un orsetto di peluche con la maglietta rattrappita. Se ne sta appeso per una zampa a seccare al sole, capovolto, in compagnia di una stella alpina vera che profuma di stella alpina vera e di un pass per l’Austria appiccicato al vetro, scaduto da due anni. Avendo un’idea romantica della corsa l’andatura è ragionevolmente lenta, senza scossoni, tranquilla, ammanettata da una giornata splendida e dall’idea di andare verso qualcosa di piacevole. Franco e Annibale, il mio bagaglio umano, sono sotto il cartellone pubblicitario. La conversazione è pacata e piacevole, il tragitto breve, disossato di novità. La gara è a uno sputo, a distanza con- un- litro- ci-arrivo. Lo speaker, stranamente elegante affetta un ssssa saaaaaa per provare il microfono, poi tira su con il naso, soddisfatto. Rinuncio a togliermi la felpa se no il logo della squadra non me lo vede nessuno, siamo in vita dal 2007, comincia ad avere una certa importanza museale il logo. Nati tutti con parto podalico, pronti ad usarli quei piedi, in tanti a zonzo aspettando la partenza. Solito giro al bar. Il barista circondato dai runners ha un vortice veloce sul proprio asse, colpisce la macchina e colpisce il bancone, un rimbalzo fatto di cappuccini e caffè fumanti, poi la sua ellisse orizzontale si amplifica per un succo di frutta per Annibale decaffeizzato da problemi di colite. I miei pensieri ruzzolano in lavatrice, una venuzza rigonfia sull’occhio sinistro si presta a un doppler immediato. Franco quantifica una gomitata al mio fianco come segnale di pericolo: cassiera in vista, attenzione. Mi dissocio dall’osservare, la mia complessione non va oltre il caffè e un’occhiata assassina ad una donna in carne con mollettone fintogitano giallo molecola che prova a mandarmelo per aria, il caffè. Con una parodia della gentilezza la prego di farmi spazio, lei si sposta cingolata e mi attacca un pippone sulle sue opere di carità, sulle sue lezioni di acquagym, sulla sua passione per gli asparagi non coltivati e per il carciofo romanesco di Sezze sperticandosi in dettagli culinari. Mi impunto sulla questione, se è di Sezze non è romanesco è sezzesco. Istruita alla serietà non percepisce la mia voglia di scherzare. La conversazione demenziale appiccica l’attenzione di un pubblico estemporaneo: un addetto Ama vestito da addetto Ama con bozzo di sigarette a spalla stile dopoguerra, un ciclista in pausa e andropausa, visto il ventre gonfio, con maglietta a stampatello sponsorizzata e scarpa sonora da aggancio look, un paio di ragazze di bellezza invisibile autocandidate all’inseminazione artificiale per antipatia spontanea, un ciccione con sondino dimagrante giallognolo innescato alla narice ostentato come must vintage d’acchiappo. La donna prova a trattenermi lavorando sul suo punto forte di conversazione: la scollatura. Insiste nel convincermi delle sue verità con quella, divertendosi un sacco in quel qualcosa di sessualmente molesto. La mia uscita dal bar è, andremo a dire, opportuna. Franco finita la sua frenesia alimentare di cornetto farcito, paga il conto, tossendo spicci. La Gara ha un suo silenzio, una sua delicatezza, chiude gli occhi a ogni folata di vento, poi mi guarda con quella bocca mangia tempo dichiarando le sue reali intenzioni : devi calpestarmi per 10 chilometri, Tò. Darò tutta la mia energia animica, prometto che non ti farò male. E’ una risposta sensata, è una risposta sensata, ma non voglio che ti disperi nel ritmo. Nuda, con i capelli lunghi, ricci, sulle spalle, la Gara ora se ne sta seduta con le gambe incrociate osservando i suoi tanti amori con il pettorale. Quando fissa me, ride. Non si era mai vista una Gara che ride, dico avvampando. Tu riesci pure in questo Tò, a farmi ridere. E quel bellimbusto dell’amico tuo dove l’hai lasciato? Non è bellimbusto. Ti offendi se ti toccano Franco…. Macchè…ci tenevo a precisare che lui non è mai elegante è bohemienne come me, un anticonformista per eccellenza, quindi bellimbusto proprio no. Quando parli bene significa che ti sei offeso. Stai diventando insopportabile, quasi mi ritiro. Ti ritiri da me?..sai che perdita, e.. ride. Almeno fingi di partire, tu sei bravo a fingere, vero Tommaso? Senti, ti gira oggi?.. mangiati una mentina, ti puzza l’alito di fumo, una Gara che puzza di fumo, roba da matti. Le scrivi tu queste cose, il matto sei tu caro. Non chiamarmi caro. Provo a farti sparire con la mente, non ne voglio sapere più niente, e dei tuoi 10 chilometri chissenefrega. E cosa farai per cinquanta minuti? Mi leggerò il giornale afflosciato su una panchina comoda sorseggiando un mojito e aspettando che finisci. Ti credi l’Hemingway della Bodeguita del Medio? Piantala, non mi credo niente. Nemmeno all’arrivo per vedere chi vincerà? Mi stanno antipatici i vincitori, di qualsiasi specie. Io so solo che sei un vigliacco, uno che vuole sottrarsi, io so solo che ti vergognerai tanto da non riuscire più a guardarmi in faccia. Hai una faccia? Certo che ce l’ho. O.K, sarò inconsolabile, va bene? Parti, allora. Gara si lega i capelli e si avvicina, di 5 minuti, pochi, ma si avvicina. Le sembianze di donna ora le vedo bene , l’ombra del seno e dei fianchi. Io smetterò di fumare, con l’aiuto dei cerotti, se tu mi percorrerai in meno di 50 minuti. E’ la prima volta che qualcosa di femminile pretende velocità, o.k ci proverò, e tu dove andrai? Se mi chiamo Gara starò vicino a te. A me ? A te e a tutti, o preferisci correre da solo? ( e ride) Scusami. Parti, tonto, sbrigati……... Pam! *** L’erba del quartiere è verde, così verde che profuma di verde, di pennarello verde. L’aria fresca saputella di sole si accoppia con noi per tutto il percorso rendendolo agevole, ecco la parola giusta, agevole. La Gara finisce senza colpi di scena e avete idea di quando termina un concerto e si resta perplessi per quel silenzio improvviso dopo qualcosa di molto forte che è finito? La Gara appare proprio così e mi lascia impensierito, idoneo alla sopravvivenza, ma impensierito. Stramba questa cosa, veramente stramba. Quelli seduti in poltronissima, i più veloci, si allontanano con l’aria di chi scappa stufo di essere sempre premiato. Tò? …a cosa stai pensando? Chi io? No, mio nonno. A nulla, sono nemmeno stanco, siamo andati forte eh. Si fortissimo, più di 53 minuti (e ride). C’erano molte salite(ma quali?). Vero, molte. C’erano molte discese. Vero, molte. C’erano molte ragazze carine. Vero, molte. C’era pure Annibale. Vero, avanti a noi. Ce lo sorbiremo un mese intero adesso. Ce lo sorbiremo si. Una sinfonia di zip, di tute messe, tolte accartocciate dalle borse di plastica copre la musica da giostrai che arriva dall’altoparlante monodose, le parole aggiunte a stampatello sono in codice classifica, la loro lunghezza è regolamentare. Franco, seduto su uno strapuntino occasionale, si guadagna da vivere leggendo un depliant dell’ennesima gara prossima, a intervalli regolari soffia palloni di chewingum alla mela annurca, enormi . Devo andare in bagno Tò, è la terza volta oggi, mi sento niente bene. Troviamo un bar con bagno incorporato, no? E dove?...è tutto pieno di gente. Qualche gomitata più in là c’è il bar di prima, poco luminoso , ma efficiente. Somiglia a un centro benessere con tante facce distese, levigate dallo sforzo chilometrico appena concluso che sorseggiano tisane, tè caldi, acque minerali. Franco, sfacciato come tutti gli uomini del mondo che stanno per farsela sotto, chiede avvolgente : dov’è un bagno? Ne abbiamo due, a sua scelta, risponde esaustiva una voce da cassiera accesa dal nostro battito sonoro come quei giochi animati per bambini. A me ne serve uno. Se è uomo quello a destra. Franco su un rialzo immaginario la fulmina con un fulmine da fumetti, a zig zag. O.k pago in anticipo pure due caffè, quant’è? Niente, oggi i runners non pagano, voi siete runners vero? O solo un bluf? Runners. Dopo la risposta guardo con più attenzione la cassiera , ha una bellezza temporanea, pronta a svanire, ma con una permanenza importante nello sguardo di chi la osserva. Una bellezza che si magnifica e riproduce nelle osservazioni, ecco la definizione giusta. Il migliore automobilista che abbia mai incontrato mette la freccia e mi si piazza di fianco. Io non sono in fila, si accomodi. E che ci fa qui? Aspetto l’esame. Non deve pagare? Macchè, io non pago. E per caso vuole essere esaminato dalla cassiera?.. è la mia ragazza. Pessima scelta, condoglianze. Ma chi cavolo sei? Dà l’idea di uno che non batte un chiodo o che vive con una donna intoccata, quel passaggio a un tu più confidenziale mi preoccupa, la sua gelosia primordiale è assurda. Cavoli miei chi sono, non mi piace la baraonda, se vuole fare a pugni usciamo fuori. (lo dico per scherzare,giuro, non per darmi un tono, lui ci crede) e…. Ganza l’idea! Vero?..piace anche a me. Idiota, tu sei un povero idiota. Imploro una foto con il buco, di quelle dove infili la testa e il resto è muscoli dipinti, o almeno qualche coperchio, qualche scolapasta sotto il quale nascondermi. Fuori l’aria è : non mi ricordo la temperatura. Fuori il cielo è: non mi ricordo il colore. Ma davvero dobbiamo fare a pugni per una battuta stupida? Testa di cavolo preparati.(non ha detto di cavolo) E che devo fare? Ma ci fai o ci sei?...questo è deficiente. Non ho mai fatto a pugni, non so come si fa, giuro. Il tizio assume un’ espressione brutta come uno sbadiglio di sonno con un nervetto ballozzolante al lato della mascella. GUARDA CHE PASSA L’ANGELO E CI RIMANI COSI’ EH…(lo dico con voce da bambino, meravigliando perfino me stesso per quell’ingenuità estemporanea e per quella tonalità). Deficiente. Mi colpisce con un pugno neppure troppo veloce che avrei potuto benissimo evitare, giuro, ma che non evito per non farlo rimanere male . Mi sento mancare, mi appoggio alla scanalatura di un palo della luce. La scanalatura mi fa da guida per una discesa dritta, teatralmente perfetta. Mi siedo senza accorgermi d’essere seduto. C’è il trucco della scanalatura a non farmi stramazzare al suolo. Mi esce sangue dal naso, poca roba eh..nulla di preoccupante. Mi si chiudono gli occhi, poca roba eh..nulla di preoccupante. (legge pure mia madre il racconto, meglio rassicurarla il doppio) L’ombra del palo interrompe la luce, o si interrompe da sola, non so. Sei purtroppo per te un coglione buono a niente, non ti accostare più al bar o le prenderai. Oh grazie dell’avviso, cercherò fontanelle, acqua di sorgente alla prossima Gara e ingoierò caffè a chicchi portato da casa. ( Parlo stonando per il dolore alla mandibola , sembro il Cristo di James Frey). Arriva un po’ di gente, o forse già c’era, arriva pure Franco attardato dal prezioso gabinetto. Tò cos’è accaduto? Ma niente sono inciampato. E tutto questo sangue? E che vuoi, lo sai che peso e ne ho parecchio. Dai..so di aver sbagliato, ma chi non sbaglia mai? ..ripeto il ritornello di una canzone che ho in testa perchè ho la testa con un crepuscolo di niente. Sono stato io, hai da dire qualcosa ciccione? Franco non risponde, non so se si arrabbia per quel qualcosa o per quel ciccione, abbassa il finestrino dei suoi occhi di pece, lo afferra per il collo con una mano sola e lo solleva dieci centimetri dall’asfalto. Rimane in quella posizione per un tempo indeterminato senza il bisogno di colpirlo. Urlo: lascialo stare. Lo lascia. Franco è buono ed è padre, e non aspira ad essere altro, ma ha qualcosa di eroico che si trascina da bambino, cerca sempre qualcuno da salvare e oggi vuole salvare me. Io sono lì come se non ci fossi con un’impassibilità pokeristica che è annullamento. Interviene un uomo in divisa, mi sembra una guardia giurata, uno di quelli che trasportano valori o qualcosa di simile. Che succede? Nulla, si scherzava, siamo amici vero? Il tizio mi guarda mezzo soffocato e dice: si, siamo amici. La guardia giurata si allontana con andatura grossolana, poco convinta. Mi avvicino al tizio sull’orlo di uno svenimento, riesco a mettergli una mano sulla spalla, scusami , con l’età si perde il giusto modo di vedere le cose. No scusami tu, non avrei dovuto permettermi. Quell’amicizia nuova o perlopiù restaurata commuove i presenti: Franco. Mbè, io vado. Hai la mano pesante amico, gli sorrido. Pure il tuo amico eh, sorride lui. Alla prossima. Alla prossima. Alla prossima. Scompare tra le automobili posteggiate. 53 minuti, e ora chi la sopporta quella… Quella chi? Cose mie. Bevi qualcosa Tò, sei strano, ti fa male? Poco poco, guida tu.