Roma Ostia. Mi sono vestito leggero, come quando vado a teatro. Ho sulla schiena una borsa arancione con i manici di plastica e il numero. Il bar profuma di bar, la cassiera pure profuma di bar. Sono stato sempre To’, non mi va di diventare qualcosa di diverso e nemmeno saluto. Ordino quattro caffè, pesco nel cestino delle caramelle sfuse quelle alla liquirizia. Il paradiso terrestre potrebbe somigliare a quello che accade fuori, nel verde dell’EUR : gente colorata corre , canta, ride, scherza, beve. Un’enorme massa di dati ambosessi felici. L’ ultima gabbia si apre circondata dai ragazzi dell’Accademia di Modena infagottati in una maglietta bianca, ardenti di fare bene con la sfumatura della loro gioventù, non tutti hanno scarpe tecniche e questo mi intenerisce. La prima parte del percorso è da università della corsa, divertente e variegata. Poi la salita lunga del vecchio campeggio spariglia i gruppi. I posti di ristoro numerosi mi permettono di fare come mi pare e soprattutto di camminare per una cinquantina di metri. La ragazza dei palloncini gialli, quella che ti porta all’arrivo in 2 ore e quindici, ha la voce di un’eroina romantica, vederla vicino quasi mi spaventa, non sono abituato a tanta generosità. Non ho margini di recupero, la ricerca di un tratto in pianura sembra la versione ipnotica di un disperso nel deserto. Comincio a pensare che il talento avuto in passato sia stato solo frutto di una botta di culo. Alla fine penso che. Ostia è il posto ideale per una vacanza, non per un arrivo che non arriva mai. Mi dibatto su un chilometro di specchio di mare come una mosca domestica sul vetro di una finestra. Alla fine dico che. Esiste il pericolo reale di essere frainteso. Magari quello è un vantaggio. Magari la stanchezza non ha ancora finito con me e vuole solo farmi stare male. Mi aiuterebbe a far sparire difficoltà spaventose. Le difficoltà spaventose. Fa sparire l’eterno essere zero. Qui non esiste. Lo zero. Potrei affermare. E gli altri sono solo sintomi. Dolori che passano. Smetterò di disprezzarmi raggiunto il mare. Non l’arrivo. All’arrivo mi disprezzerò di nuovo. Per intuizione. Per induzione. Rattrappito dal freddo della disidratazione. Per una versione artistica di auto condanna. Perché non riesco più a correre con una certa dimestichezza. Non dovrebbe essere così. A qualche corridore sgualcito come me il ragionamento non interessa. Il suo batterio peloso è il cronometro. E quell’eterno misurarsi con se stesso. Inutile. Pessimo. Eccessivo. Io ci torno sopra per incorporarlo, il ragionamento. Lo voglio dire.