La Maratonina delle rose. Io e Francone siamo alti, non siamo sottili, e questa non è la nostra gara. L’idea di destrutturare il percorso e di rendere piacevoli e incantevoli le numerose salite della maratonina delle rose è molto difficile da realizzare, somiglia a un complotto per trasformare lo stress in normalità, in buon cammino. Il nostro radicale cambiamento, almeno per i primi cinquecento metri, sfrutta l’andatura dell’ambulanza e la tecnica di rallentamento di una mollacciona che ha difficoltà a selezionare le canzoni giuste sul suo cellulare. L’edizione speciale della mollacciona scompare sostituita dalla gradevole visione di alberi carichi di ciliegie porpora. La nostra decisione di rendere la gara meno spietata possibile funziona, un patto lento tra di noi, un’imitazione delle prime non competitive degli anni settanta, quando si correva con le bandane, i capelli lunghi e qualche volenteroso cane randagio. Che poi il modo più giusto di rispettare i ricordi e di non ricordarli. L’ordine delle cose finisce con qualcosa di artificiale, il pallone di plastica dell’arrivo. Condividiamo l’acqua fresca di tre fontanelle e il coraggio di scappare in fretta. Prima ci stringiamo la mano e a Francone vorrei chiedere del grande recente dolore intimo di chi perde il papà, di chi gli ha dato il nome e vita. Glielo vorrei chiedere con tutto il cuore. Alzi la mano chi ci sarebbe riuscito, io non ne sono stato capace.