Corri al Tiburtino. Mettere qualcosa di sconcertante all’inizio del racconto è la classica strategia modernista, lo dice Franzen. Sono indeciso tra un verme, una cavalletta e me. Il fenomeno della gara, analizzato meglio, non dal punto agonistico, ma narrativo, ha due blocchi di risultati : cari amici che corrono, estranei che corrono. Parcheggio senza problemi in un posteggio condominiale, tiro fuori dalla tasca il depliant della gara ancora caldo di sedile: Corri al Tiburtino-partenza ore 10. Dall’altoparlante qualcuno incomprensibile dà il benvenuto agli atleti, lo dà senza un paio di incisivi, sibilando le consonanti. Un’amica di giornata mi saluta con entusiasmo pacato, quasi assente, poi, come ricordandosi del latte sul fuoco acceso mi chiede compulsiva dei miei racconti, mi dice che sono bravino e strano, ma che non riesce ad identificare la mia corrente letteraria. Con voce bitonale e con un cara mia stilografico spiego le mie ragioni di esistere prendendola per i fondelli ardentemente. … Cara mia non mi ricordo il tuo nome. Melissa, mi chiamo Melissa. Cara Melissa molti mi definiscono un solipsista, proprio così, un solipsista convinto. (cerco di non scoppiare a ridere e non è facile, credetemi) La malcapitata mi guarda atterrita, ha capito meno di nulla. Ha occhietti di una tonalità neutra e una bocca sconcertante, un avviso silente scritto con il rossetto arancione sulle labbra avverte gli ammiratori di essere solo l’imboccatura di un tunnel che arriva giù, dopo varie peripezie,all’intestino. Molto poco sensuale (l’avviso). Vado a prepararmi, buona gara. Buona gara è come dire buona pesca ad un pescatore, ma sopporto l’idea, glielo devo… per la presa in giro. Franco che non si è allontanato di un centimetro mi bussa sulla spalla sinistra, cosa vuol dire solipsista, Tò? Ma niente… zitto e nuota.(e rido) (finalmente) Non trattarmi come un deficiente, Tò. Sai bene che non lo sono. Scusami,… tutto quello che l’individuo percepisce è creato dalla propria conoscenza, da una morale prestabilita del proprio io. Questo è il solipsismo. Ecco, e ci voleva tanto. Hai capito ora? No, ma va bene. Scaldiamoci, manca mezz’ora e possiamo fare i predicatori correndo. Un camioncino con frigo ci sventaglia una mitragliata di chicchi di catrame e di puzza di pesce. Una barretta anti taccheggio mi si infila nel fiordo di una scarpa. Mi fermo e favorisco la prima foto, ma secondo me è solo una truffaldina flashata..tipo notturno a Fontana di Trevi. Il fotografo ha un cartello al collo: non sono qui per catturare immagini collettive, sono qui per te. Franco espone il profilo migliore con un’imperturbabilità pokeristica. Lo stare in posa diventa una valida forma di intrattenimento, più coinvolgente della gara stessa. Funziona ancora la foto, pur essendo una forma atavica d’immagine. I gangli nervosi dei partenti sono pronti a bisbocciare con l’asfalto sottile come una fetta di formaggio e il percorso, piatto, rassicurante, con poche curve, prevede un buon riscontro cronometrico. Ci si osserva senza espressione sperando di essere gratificati dalle cifre finali e non dall’estetica letteraria di una buona conversazione. Si sta zitti, concentrati sulle gambe, sul respiro, sul serbatoio del sudore, sul battito. Automotivati. I runners migliori hanno lo spazietto davanti, mai negato il vantaggio ai più forti, ma dovrebbe essere il contrario...i ciccioni, gli anziani e le donne incinta avanti e gli smunti d’elite dietro. Questa partenza prioritaria svantaggia i deboli, proprio come nella nostra società, li accoda. Per fortuna la nobiltà dello sport individuale ci dà una spruzzatina di profumo sul polso e stelline d’argento in faccia facendoci sentire quasi tutti divi. Ho detto quasi tutti… perché Franco che mi corre addosso è imbevuto di onesto dopobarba alla menta e fa reclame alla sua semplicità cancellando con il telecomando tutto quello che gli dà noia: il paesaggio monotono, le case alveari, i negozi chiusi, un paio di saliscendi, un cassonetto fuori posto(rivoltato). Le bollicine di ossigeno sembrano gorgogliare dentro un mattino fresco, radioso di un sole tossito improvvisamente da un paio di nuvole in un orgasmo simultaneo. Uno spettatore, cretino a credere nel nostro potenziale, ci urla un: siete fortissimi!.. subito dopo qualche centinaio di metri, sostenendo con applauso la sua scriteriata convinzione. Sgamarlo, il potenziale, non è facile, io e Franco ci travestiamo da campioni e lui, ingenuo, non è uno spettatore ben addestrato. Al quinto chilometro la mia catatonia diventa più che visibile, sponsorizzata da rughe d’espressione che dicono: sono qui , ma preferirei essere in un altro posto. Comprensibile il depauperamento di forze di un maratoneta al trentesimo chilometro, meno comprensibile sentirsi uno straccio avvilito dopo 5 chilometri. Franco..( l’avevo quasi dimenticato)… .parlotta senza affanno, grosso come un camion, con un ‘guardate quanto sono figo’in completo blu di filanca aderentissimo che fa pubblicità occulta a un paio di ditte sanitarie pro autopalpazione dei testicoli. Il loro ritmo diventa corrosivo, sporco per la mia poca forma e resto solo come un cane al canile. Mi supera una vecchia con il volto da vecchia e il corpo da trentenne disoccupata, tutta palestra lampade e tatuaggi. E’esattamente il mio contrario. Tempo fa una semisconosciuta extracomunitaria, frequentatrice assidua del parco… vedendomi sempre correre di mattina mi fa: perché non ti trovi un lavoro?.... Per non contraddirla risposi solenne: correre è roba gratis e per me rappresenta un infelice divertimento irrinunciabile, non mi piace lavorare. Cespugli marginali di oleandro con le loro ombre basse, silenziose, puntute, hanno un effetto curativo, c’è qualcosa che va più piano di me: le loro ombre. Mi distraggo dalla cura osservando il traffico dell’interstatale e un grappolo di adolescenti sul muretto con voglia d’estate novembrina, gambe e braccia nude, immoti al sole. Il sole, offeso, si sta ritirando asciugato dai suoi stessi raggi e da qualche nuvola sinusoide impazzita. Manca una settimana all’arrivo, forse meno, sento l’impulso di anticiparmi un voto: zero. C’è chi dipinge correndo, io scrivo un libro—aiutami ad arrivare— Gli spettatori, ora più numerosi, hanno l’occhio spietato, con una specie di difetto nella voce sussurrano: forza che è finita. Il fotografo, sempre lo stesso, ostenta una certa eleganza con un gilet safari tigrato e borsello da spalla in finta pelle verde sedano. Appostato sul traguardo, si dimentica di fotografarmi. Idrofobi, i parenti dei runners, non i runners, si accaniscono sul posto di ristoro in un bisogno collettivo di fare tutto insieme, mangiare, applaudire, tornare a casa. Saluto un paio di vecchi amici di Caracalla, li saluto per fare qualcosa, senza enfasi e senza ricordarmi il nome. Mi allontano moscio come un sarago pescato 7 giorni prima. Rimedio sempre qualcuno che pianga al mio posto, se ho da fare, e ci rimetto eh..perchè la gente avvoltolata nel dolore è sempre più divertente, ma questa volta devo arrangiarmi da solo. Su via Togliatti mi si affianca un’Ibiza color rosso mestruazioni onnicomprensiva di Franco e di una scandalosa musichetta napoletana : Tommà, non t’ho visto più. Fa niente , sono abituato così… si nasce e si muore soli. Dai…veramente, mi sono girato e non c’eri. M’ero addormentato sul sedile posteriore. Scherzi sempre tu…. (le auto dietro cominciano a suonare)(pure il lato umano della storia suona) Dai….la prossima la facciamo insieme. Devi metterti gli stivali di gomma per stare al mio passo. Ti sei offeso, ecco, ti sei offeso. Sono solo preoccupato per me, ed è insopportabile essere preoccupato per me. Fermiamoci al bar, dai offro io. Ma è tardi. Dai.. Giù dall’auto Franco mi mette un braccio intorno alle spalle a mò di mantella per proteggermi dalla mia sofferenza post Corri al Tiburtino, facendomi sentire un reduce di qualche battaglia sanguinosa tornato in patria ferito. Due caffè, grazie. --Siete diventati gay? --Eh? Vi trascinate abbracciati. Chi le dà tutta questa confidenza? Me la prendo da sola, vi conosco da una vita. Mai vista e conosciuta. Ho cambiato pettinatura, ma sono sempre io. Io chi? La cassiera.(e ci fa uno spelling del suo nome)(quel nome lo indossa) La mia peculiare struttura mentale vacilla…la cassiera? ….quella delle altre gare? Si proprio quella. Si rizza accanto alla sedia per sventagliare un: guardate come sono bella e da un vassoio ricoperto spilla un’insalatina di cioccolatini assortiti. Li spilla per noi. Ho pensato che forse in questo momento della vostra vita avete bisogno di cioccolatini. Vero.(dico io) Vero.(dice Franco) Pure il tessuto cinz della poltroncina sembra sorpreso, avendola vista sempre di spalle. Franco, che è scostumato dalla nascita, si infila due cioccolatini in bocca, quasi da togliersi il respiro. Una cassa in alto diffonde musica per nulla innocua. Il Bar perde l’aspetto campovacchesco e diventa un BuddaBar parigino con sonorità mistoriente. La cassiera si passa una mano tra i capelli scuri, color cioccolato e comincia ad agitarsi come un lenzuolo in lavatrice, con movimenti circolari, lenti e circoscritti, da danza del ventre. Io mi appello alla saliva perché intervenga, non mi va di non riuscire a parlare. Finisce la musica…. E dove avete corso di bello? Al Tiburtino. Insieme? Si, insieme. Franco avvampa. Io no.