Corri al Tiburtino 2013. Voglio farmi la riga, voglio suonare una Fender celeste, voglio trovare un parcheggio. La pelle lucida di case periferiche sorride. Sorride per la scriminatura, per la Fender, per il parcheggio. L’ombra pronta e obliqua sulle strisce di uno spazio vuoto mi segnala la fine del mio tormento. Schierata la banda dei Bersaglieri sul filo di lana fa un effettone rassicurante. Il mattino è fresco e stabile, senza nuvole, senza vento. Per timidezza e per pudore non saluto mai i personaggi famosi. Quell’uomo minuto che ci passa vicino claudicante, con un’eterna aria da ragazzo scapigliato, ha una storia agonistica troppo importante per non salutarlo. -Alessio, come stai? Mi guarda con la compressione magica del campione in disarmo che vive comunque con piacere l’istante di essere riconosciuto. -Sto bene, grazie, e tu chi sei? -Un tuo ammiratore da sempre, ma tu zoppichi... -Piccolo intervento al piede sinistro, guarirà, tutto guarisce. Non mi viene in mente nulla di fondamentale da dire e commetto la gaffe di associare le sue vittorie in maratona allo strapotere della Coop 2001 degli anni ottanta. -Io correvo per le Fiamme Oro, dice. (E ride) Alessio Faustini, il nostro amato papero, è di una simpatia unica, non trovo il coraggio per abbracciarlo e mi limito a stringergli la mano. Non posso farmi sopraffare dalle emozioni ancor prima di partire e inizio il riscaldamento con modalità lenta. Un caffè con gli amici Patrizio, Carmine e Rodolfo è una preziosa pausa che migliora la ventilazione, la pressione e l’urgenza emotiva di sentirmi circondato d’affetto. Pure la mia scrittura involontaria, quella istintiva, sembra funzionare meglio. La gara spinta dalla fanfara dei Bersaglieri parte. Parte pure il mio bisogno ossessivo di tenere tutto sotto Controllo, nel senso che mi lascio andare, finalmente, al ritmo vorticoso di sei al chilometro. Nessuno mi prende mai in giro per la mia mediocrità atletica e se non lo faccio almeno io ci resto male perché mi sento privilegiato. Ho un enorme massa di dati per descrivere il quadro, la situazione al sesto chilometro: siamo allo sfinimento per colpa di un maledetto falsopiano. Riusciamo a trovare un estemporaneo sincronismo con un team minimale di tre persone di Aprilia.( Non mi piace ripetere runners o peggio corridori, non mi piace e basta e non chiedetemi perché, perché non saprei cosa rispondere). Nulla accade e tutto resta uguale per qualche centinaio di metri. Carmine ogni tanto si volta per vedere se sono ancora vivo. Io alzo il pollice destro e lo rassicuro: vivo. Ambedue staccabili, l’uomo si stacca, la donna si stacca. Resta Flora vicino a noi e non si capisce niente, chi aiuta e chi è aiutato. Sto rendendo i fatti tristi, ma non è così, si sorride molto e si parla molto. A Flora racconto che nella lontana preistoria ho corso la mezza in un’ora e dieci. Fa finta di credermi per farmi contento. Non mi piace usare immagini mistiche contorte per descriverla, tipo è un angelo, è una madonnina, è una santa che ci accompagna, ma la nostra solitudine agonistica le deve molto, più di molto. E Flora resta vicino animando le riprese che seguono ogni cedimento. Suo marito è dietro di noi, e il suo conforto vocale è acqua chiara, di purezza assoluta. Quando Carmine allunga sulla retta finale sono del tutto incapace di seguirlo. Flora urla: -dammi la mano. Le do la mano, la sinistra. Il fatto è che tutte queste cose accadono in pochi secondi e accadono davvero, non sono una falsa reclame della mia fantasia. E se c’è una cosa poco chiara in quell’arrivo è il non cambiamento. Qualunque essere umano direbbe di aver aumentato l’andatura e il compasso. Io non lo dico. Perché nulla cambia, anzi, con la stretta il ritmo cala. Stranamente dentro ho una gioia profonda e la pretesa di lacrime artificiali che vogliono la loro apparizione. Flora mi guarda, si accorge della novità, e sorride al materiale morbido della mia espressione. Ha due occhi dove hanno versato con l’imbuto inchiostro nero. E se fosse un angelo davvero?