We Run Rome. Il gioco scenico è potente. Un colore unico, arancione, attraversa l’orizzonte poetico e monumentale della città, ricco della sostanza di cui è fatta la corsa: volersi bene. Per la prima volta i punti luminosi sono uomini e donne che incuranti segano polveri sottili, buche, frattaglie di incompetenze cittadine, salite innocentemente storiche, discese, spigoli di prato, dettagli di sampietrini sciabolati dall’ultimo sole dell’anno. La devozione eterna del cavaliere alla sua dama non funziona, la bellezza del suono del passo solitario tocca l’apparizione di molte ragazze e donne mature. Quando la gara diventa libertà, svincolo, raggiunge il massimo traguardo, il podio più alto. Quei passi su tante cose che non sono erba risuonano felici. Come ci aspettiamo ogni volta da lui l’arrivo arriva. Ragazzi in un lugubre completino nero smanacciano le nostre mani. Il cuore ci fa ancora male al ristoro a risparmio. Mezza banana, acqua naturale, una riduzione di arancia, tè a fontanelle. La salita diventa un’onda, uno sforzo che si ripete per raggiungere l’automobile posteggiata. La biografia di un gruppo di amici si conclude in un magnifico bar. Caffè, ginseng, e tanto amore